foto tratta
dal sito dello US
Holocaust Memorial Museum
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Dal Polo Archivistico dell’Emilia Romagna e su richiesta di un lettore:
Con grande
attenzione alle pratiche di conservazione digitale più avanzate, lo US
Holocaust Memorial Museum ha pubblicato su web centinaia delle oltre 12.000
interviste audio e video alle vittime delle deportazioni naziste, raccolte in
20 anni di storia
Lo United
States Holocaust Memorial Museum ha aperto al pubblico nel 1993
con un obiettivo ben preciso: raccogliere e tramandare le testimonianze delle
persone sopravvissute alla tragedia della Shoah, partendo dal presupposto che
la maggior parte di loro è ormai scomparsa, o comunque non è destinata a vivere
ancora a lungo. Da allora a oggi, ha collezionato più di 12.000 interviste
audio e video, molte delle quali disponibili anche on line,
e con esse quasi 100.000 fotografie, nonché oltre 65 milioni di documenti
originali o copiati. Tra questi, diari, manifesti, giornali, tesserini
personali, oggetti, film e documentari, provenienti da istituzioni pubbliche o
private, così come da collezionisti.
Come si
apprende sul blog The Signal della Library of Congress – che nel marzo
2013 aveva dedicato un corposo approfondimento alle sue attività –
le stesse interviste accumulate nel tempo provengono solo per il 25-30% da
iniziative direttamente promosse dal museo. Il restante materiale è frutto di
donazioni personali o da parte di circa una settantina di organizzazioni.
Alcune – si legge nell’articolo – erano già in digitale, altre sono state
successivamente convertite su supporti informatici da vecchi nastri audio o
video, mentre tutte quelle che sono attualmente in via di realizzazione nascono
direttamente in digitale. Quello che più conta però, è che il museo ha
intenzione di digitalizzare l’intero patrimonio di testimonianze a
disposizione, contando tra le altre cose sul supporto della National Digital Stewardship Alliance, alla
quale aderisce da tempo, riconoscendo l’importanza fondamentale della
conservazione digitale per dare sostanza alla propria vocazione originaria.
Normale e
interessante quindi, che l’approfondimento di The Signal sia una specie di
storia nella storia. Non mancano ovviamente i dettagli sui materiali custoditi
e sulla tragedia alla loro origine, ma molta attenzione viene dedicata anche ai
dettagli operativi e alle iniziative messe in atto per fare in modo che si
possa continuare a tenere memoria di questa tragedia anche nell'era di
Internet. “Il museo attua le migliore pratiche in materia di conservazione
digitale delle testimonianze orali e degli altri documenti informatici – si
legge a riguardo nell’articolo – ed è costantemente alla ricerca di nuovi
sistemi per la gestione e lo storage di questo tipo di contenuti”. A illustrare
questi aspetti con dovizia di particolari è direttamente Michael Levy,
direttore del dipartimento del museo che si occupa delle collezioni digitali.
“Ogni singolo step relativo alla gestione dei file è cruciale – spiega a
riguardo – compresi i flussi di lavoro, l’attribuzione di metadati descrittivi,
contestuali, tecnici e amministrativi, la definizione di regole precise per
l’etichettatura dei file e i percorsi di migrazione, e ancora i meccanismi di
controllo automatico da parte dei nostri sistemi informatici sull’integrità di
ogni singolo bit. Se non è possibile validare un file – prosegue Levy – come si
può essere certi che si tratti esattamente di quello che si presume dovrebbe
essere?”.
Considerazioni
e principi che valgono sia per quanto direttamente prodotto dal museo, sia per
i tanti materiali ricevuti in dono nei formati più diversi, tra i quali ad
esempio, per rimanere a quelli informatici, CD, memorie drive e dischi RAID.
Ovvio e inevitabile che tanta varietà si riversi anche sulla qualità dei file,
specie per quanto riguarda il modo in cui sono nominati e i metadati che li
accompagnano, sempre che ce ne siano. E l’unico modo per far fronte a tutto ciò
rimane quello di applicare principi molto rigidi di classificazione e
archiviazione. “Un’intervista può essere registrata su più nastri digitalizzati
– si legge con un esempio nell’articolo – ma sarà sempre e comunque descritta e
gestita come se fosse una storia unica. Conseguentemente, questi nastri o
magari altri supporti dovranno essere catalogati di modo che facciano
riferimento ad una unità di senso globale che li accomuna tutti”.
Rimanendo in
tema di varietà, nell’approfondimento si fa cenno anche al nuovo sistema di
ricerca on line dei contenuti, creato per fare in modo che tutte
le risorse digitali custodite dal museo siano reperibili da un unico punto di
accesso. I vari materiali, dalle interviste orali alle modellizzazioni in 3D
degli oggetti, dalle foto ai film, continuano a risiedere su database separati,
ma mentre prima per ogni singola categoria bisognava consultare specifiche
sezioni del sito, adesso tutto è disponibile dalla stessa interfaccia, grazie a
un sistema di ricerca multidimensionale che ha semplificato di molto la vita
dei navigatori. Sempre in quest’ottica di semplificazione e aspirazione alla
massima usabilità possibile, vanno interpretate anche la scelta di indicizzare
con parole chiave le trascrizioni delle interviste, e diverse registrazioni
audio e video.
Quanto ai
loro contenuti, accedendo al sito è possibile ascoltare una vera e propria
storia polifonica. Sopravvissuti, parenti e amici delle vittime, veterani,
pubblici ministeri attivi negli anni del dopoguerra, medici, infermiere e altro
personale con funzioni di soccorso e assistenza: dai loro racconti sprigiona la
carica di brutalità del nazismo e la tragedia che causò al mondo. Tragedia di
cui è possibile apprendere anche direttamente dalla voce dei carnefici, perché
la ricca collezione comprende anche testimonianze di complici dei persecutori,
collaboratori dichiarati, e addirittura alcuni soldati direttamente coinvolti
nelle operazioni di repressione e sterminio.
Immancabile
infine, in un approfondimento dedicato alla storia orale, un cenno alle
peculiarità di questo tipo di fonti. “Sicuramente il racconto in prima persona
comporta imprecisioni o peggio ancora inconsistenze – dichiara a riguardo uno
degli storici più influenti del museo – ma è impossibile negare l’importanza
vitale di queste testimonianze. Si tratta di fonti che rivelano particolari
irreperibili nei documenti storici ufficiali, destinati a scomparire nelle
nebbie del tempo se non venissero raccolti dalla voce di chi ha vissuto direttamente
quegli eventi”. Poco importa quindi - anzi ben venga - che fatta eccezione per
un corpus di interviste condotte con alcuni ex deportati subito dopo la fine
del conflitto, per lo più nel museo si custodiscano testimonianze raccolte a
distanza di anni dalla Shoah. Alcuni a quell’epoca erano bambini, e una volta
adulti hanno dovuto limitarsi alle proprie sfuggevoli e magari confuse memorie
d’infanzia. Altri hanno sicuramente rimosso o comunque razionalizzato a
posteriori il trauma per poter sopravvivere. Ma c’è stato anche chi aveva
conservato un ricordo vivido e cristallino ed è riuscito a lasciarne traccia,
così come persone che dopo decenni di silenzio sono riuscite a sbloccarsi
proprio grazie a questa fondamentale opera di documentazione. “Quello che conta
davvero - afferma un archivista del museo – è che ogni singola voci
racconta una parte dell’Olocausto. Una parte che non avremmo mai compreso se
quel racconto fosse andato perso”. E che ora, anche grazie alla conservazione
digitale, potrà essere tramandata nel futuro. Anche le prossime generazioni
potranno in questo modo apprendere, comprendere e serbare memoria.
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