Vincenzo
Tondolo richiede:
È operativo
da ieri l’ultimo tassello del Jobs Act, l’Agenzia Nazionale per
le Politiche Attive (Anpal), che avrà il compito di gestire la
ricollocazione dei disoccupati. Ad annunciarlo il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti e il presidente Anpal, Maurizio Del Conte.
Prende così forma, come già trapelava da mesi, il protagonista
delle politiche attive, cioè “l’assegno di ricollocazione”.
Una dote tra i 250 e i 5.000 euro che il ministero garantisce agli
enti accreditati capaci di trovare un impiego per un disoccupato,
beneficiario dell’indennità di disoccupazione (Naspi) da almeno
quattro mesi. Operativamente è il
disoccupato che fa richiesta dell’assegno, registrandosi sul sito
dell’Anpal o presentandosi a un centro per l’impiego:
dichiara la disponibilità immediata a lavorare e sceglie poi
l’ente accreditato “che offre i servizi più adatti alla
propria condizione”. Inserendo i propri dati e le esperienze
lavorative riceverà in cambio un
“indicatore di occupabilità” cioè la carta di
identità lavorativa da cui dipenderanno le misure e i servizi
proposti. Un “intervento storico” per il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti, che però merita un’analisi dettagliata
per comprenderne la reale portata
Innanzitutto,
l’assegno di ricollocazione non è reddito, ma un
bonus erogato ai cittadini che può essere speso solo a favore
degli enti accreditati, i centri pubblici per l’impiego
da una parte e dall’altra le agenzie per il lavoro: “Pubblico
e privato che competono per dare un buon servizio”. Una
competizione, però, falsata in partenza: potranno infatti ricevere
il bonus anche le agenzie per il lavoro che stipulano un “contratto
di somministrazione”, cioè il lavoro interinale – l’agenzia
assume il lavoratore e lo presta all’impresa – che però vale
soltanto per quelle private (i centri per l’impiego non possono
farlo). Così si favorisce l’occupazione in
somministrazione e si spostano risorse pubbliche verso soggetti
privati nonostante la condizione disastrosa in cui versano ormai da
anni i centri pubblici per l’impiego sull’intero territorio
nazionale.
L’assegno
di ricollocazione varia poi a seconda del tipo di contratto
all’assunzione e al tipo di profilo del disoccupato: aumenta sia
con la durata del contratto sia con la condizione di “marginalità”
dal mercato del lavoro. Da anni, però, i dati mostrano che i posti
offerti dalle imprese si concentrano in settori a scarsa
produttività. Il rischio così è che i lavoratori dovranno
accettare qualsiasi offerta pur di non perdere il diritto
all’assegno, che per la gran parte andrà ad aziende a scarsa
produttività, quelle che competono soprattutto sul costo del
lavoro. Un danno per il sistema economico e industriale nel suo
complesso.
Il
sistema è appena partito, ma per capire i rischi basterebbe
osservare il suo fratello gemello in piedi da quasi due anni, il
programma “Garanzia Giovani” nato su input europeo
per contrastare la disoccupazione giovanile: uguale è il
meccanismo di iscrizione ed estremamente simile il bonus
occupazionale. Come sta andando? Il
programma presenta mese dopo mese il conto del fallimento. Stando
ai dati dell’Istituto per lo Sviluppo della Formazione
Professionale dei Lavoratori (Isfol), a fronte di oltre un milione
di iscritti, sono state erogate solo 344.318 misure, il 34% del
totale. Altra nota dolente è la tipologia di contratti offerti: il
56% è fatta da semplici tirocini, solo il 16% da contratti di
vario tipo (a tempo determinato, indeterminato e in
somministrazione).
Stando
al rapporto Isfol, da maggio 2014 a fine ottobre 2016 attraverso la
garanzia giovani sono stati attivati solo 27.359 contratti a tempo
indeterminato. L’istituto però non dice nulla sulla durata di
questi contratti. Quello che invece ha fatto l’Inps
nel rapporto sulle politiche occupazionali pubblicato il 23
novembre scorso. L’Istituto di previdenza calcola il
numero di contratti che coprono l’intero anno di beneficio del
bonus: se un contratto dura solo tre mesi allora sarà conteggiato
come un quarto di contratto perché il bonus è corrisposto
soltanto per una parte di anno. Stando a questo calcolo, il
numero di contratti a tempo indeterminato legati alla garanzia
giovani con sgravio contributivo sono 6.133, l’1,8% di tutte le
misure erogate. Tecnicismi a parte, entrambi gli
istituti testimoniano il progressivo il fallimento del programma,
un sistema che ora il governo vuole erigere a modello delle
politiche attive del lavoro a livello nazionale.
La
riforma costituzionale, infatti, affida la materia esclusivamente
allo Stato sottraendola alla competenza regionale. “Per le
politiche attive, oggi abbiamo corsi di formazione o centri per
l’impiego diversi in ogni regione. Ed è soprattutto
il Sud ad essere penalizzato, perché il sistema non funziona. Con
la riforma al Sud avrebbero gli stessi livelli del Nord”, ha
spiegato domenica il premier. E il modello sarà appunto l’Anpal,
che non ha fatto tesoro del fallimento della garanzia giovani.
Anche al netto delle risorse stanziate per superare il divario (di
cui la riforma non si occupa) così si rischia di acuire la
distanza perché si trattano in maniera uguale contesti
occupazionali differenti. Al Sud la domanda di lavoro delle imprese
è infatti molto più bassa sia per qualità che per quantità
della media nazionale, che già non brilla. Se ai disoccupati del
Mezzogiorno verrà offerta la stessa politica attiva sul lavoro di
quelli del Nord, senza agire sulle imprese, il rischio è che
continueranno ad avere minori opportunità. Concentrare tutte le
politiche del lavoro spoglia le Regioni della possibilità di
introdurre correttivi alla politica nazionale, per esempio per
ridurne gli effetti distorsivi.
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