Il
rinvio alla Consulta del decreto che militarizza il corpo è
l'ennesima tegola sulla riforma Madia. Quattro decreti sono stati
dichiarati incostituzionali nel 2016. Eppure i sindacati, le
associazioni ambientaliste e anche il procuratore nazionale antimafia
avevano chiesto al governo di fermarsi. Il passaggio di uomini e
mezzi a carabinieri e vigili del fuoco ha già fatto sentire i suoi
effetti: solo 8 aeromobili su 32 sono operativi
Una
bocciatura annunciata. L’ennesima
che colpisce un pezzo della riforma della pubblica amministrazione.
Il rinvio
alla Consulta
del decreto attuativo sull’assorbimento del corpo
forestale
nell’arma dei carabinieri
e nei vigili
del fuoco
è solo l’ultima tappa di un percorso il cui esito
era stato ampiamente previsto dai sindacati.
Non solo: sia le associazioni ambientaliste
sia il procuratore nazionale antimafia Franco
Roberti
avevano chiesto al governo Renzi di ripensarci perché sopprimere
i forestali e militarizzare i 7.800 dipendenti del corpo avrebbe
spianato la strada agli ecoreati.
Niente da fare: la ministra Marianna
Madia e
il titolare delle Politiche agricole Maurizio
Martina
sono andati avanti e nel luglio 2016 il consiglio dei ministri ha
approvato il provvedimento sulla “razionalizzazione delle funzioni
di polizia”. Poco più di un anno dopo, ecco l’ordinanza del Tar
dell’Abruzzo.
Secondo cui la riforma del corpo
nato nel 1822 viola
almeno cinque articoli della Carta in quanto impone “l’assunzione
non pienamente volontaria dello status di militare“.
Su
32 elicotteri solo 8 operativi. E mancano 250 “direttori operazioni
spegnimento” –
Nel frattempo gli effetti concreti della riforma si sono visti sul
territorio: quest’estate oltre 100mila ettari di boschi
italiani sono andati a
fuoco
mentre gran parte degli elicotteri
della ex forestale rimaneva a terra. Dall’1
gennaio di quest’anno sui 32 a disposizione del corpo eliminato 16
sono passati ai carabinieri, che li usano per altre finalità, e 16
sono stati assegnati ai vigili del fuoco. Ma tra questi otto, ha
ammesso il ministero
dell’Interno
rispondendo a una richiesta di accesso civico ai dati presentata da
lavoce.info,
sono “interessati da manutenzioni
calendariali e al momento
non disponibili per l’operatività“.
Gli altri 8 sono in assetto operativo, ma con “i fermi tecnici,
brevi, derivanti dai cicli ordinari di manutenzione”. Prima
della riforma, poi, la direzione
delle operazioni di spegnimento (Dos)
era affidata a 1.056
forestali
che avevano seguito un corso ad hoc ed erano esperti nel
coordinamento di squadre e mezzi impegnati per spegnere gli
incendi. Ora se ne occupano 750
vigili del fuoco:
sono di meno, conoscono meno il territorio e sono stati formati solo
per la gestione dell’intervento aereo.
Ma
anche la prevenzione ne ha risentito. “Quasi
6.500 ex forestali sono passati ai carabinieri. Solo 361 sono
confluiti nei Vigili del fuoco e continuano quindi a occuparsi di
antincendio”, spiega a ilfattoquotidiano.it Gabriele
Pettorelli,
coordinatore nazionale del sindacato Conapo, ora integrato nei
Vvf. “Sul ruolo di quelli (circa 260) distribuiti nelle regioni,
peraltro, c’è stata confusione normativa. E alcuni comandanti dei
Vvf hanno deciso in via precauzionale di non utilizzarli”. Poi ci
sono i ritardi
delle Regioni
nell’adeguarsi al nuovo sistema. Prima della riforma gli enti, che
ogni anno devono aggiornare il loro piano antincendi, potevano
affidarsi al volontariato di protezione civile e noleggiare
elicotteri da aziende private o stipulare convenzioni
a pagamento
con il corpo forestale, che metteva a disposizione i suoi mezzi.
Quest’anno avrebbero dovuto fare lo stesso con i vigili del fuoco.
Stando alla tabella inviata dal Viminale alla voce.info,
finora l’hanno fatto 15 Regioni. Ma molte si sono mosse con grande
ritardo, considerato che già a fine giugno gli incendi stavano
devastando Lazio, Toscana, Calabria e Sicilia: la Toscana per esempio
ha firmato l’accordo solo l’8 agosto, la Sicilia l’1 agosto, la
Sardegna il 31 luglio, l’Umbria il 20 luglio.
Le
associazioni ambientaliste: “Si ridurrà il contrasto agli
ecoreati”
–
Una débâcle
che si sarebbe potuta evitare se il governo avesse ascoltato gli
appelli contro la militarizzazione del corpo. Già
nell’agosto 2014, un mese dopo il varo del ddl delega per la
riforma della pa, Legambiente,
Greenpeace,
Libera
e Slowfood
avevano scritto ai parlamentari e al governo perché
“scongiurassero l’ipotesi di assorbimento delle funzioni di
polizia del Corpo Forestale dello Stato in quelle delle altre forze
di polizia e delle amministrazioni locali”, avvertendo
che “rappresenterebbe un netto
e irrecuperabile arretramento
nel contrasto ai crimini contro il patrimonio naturale e
paesaggistico, dagli incendi boschivi al dissesto
idrogeologico,
dall’abusivismo
edilizio
in aree interne allo smaltimento illegale di rifiuti,
dai reati contro gli ecosistemi naturali e le specie protette fino
agli illeciti in campo agroalimentare”.
Il
procuratore antimafia: “Non eliminare l’unico corpo che scopre i
crimini ambientali”
– Tre mesi dopo, il 4 novembre 2014, Roberti era stato audito dalla
Commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti
nel ciclo dei rifiuti.
Quando gli avevano chiesto che conseguenze avrebbe avuto
l’accorpamento – i forestali si occupavano anche di lotta
all’inquinamento ambientale – il magistrato aveva spiegato di
essere “contrarissimo”
perché “sarebbe come togliere all’autorità giudiziaria l’unico
organismo
investigativo
in materia ambientale che disponga delle conoscenze, delle
esperienze, del know-how e
anche dei mezzi per poter smascherare
i crimini
ambientali“.
Rilievi non recepiti da Martina: il 18 marzo 2015 il ministro, al cui
dicastero il corpo forestale faceva capo prima della riforma, aveva
sostenuto che “la riorganizzazione rappresenta una concreta
opportunità per valorizzare
ancora meglio l’esperienza degli uomini e delle donne del Corpo
forestale”.
L’opposizione
dei sindacati: “Status giuridico stravolto. Parola agli avvocati”
–
Intanto
i sindacati Sapaf,
Ugl-Cfs,
Fns–Cisl,
Cgil–Fp,
Uil-Pa
e Dirfor
protestavano contro l’assorbimento nei carabinieri,
“sostenuto dal governo e dai rispettivi comandanti, ma non
condiviso dal 98% degli appartenenti” al corpo, che hanno scelto di
lavorare in “una forza di polizia civile dove è preminente la
peculiare attività di prevenzione
ambientale”. Con l’aggravante che l’accorpamento in una forza
militare, “stravolgendo il loro status giuridico”, avrebbe
“demolito per decreto tutele
sindacali faticosamente
ottenute dopo anni di rivendicazioni”: i carabinieri infatti
non hanno il diritto di costituzione e di libera associazione ai
sindacati. “Se dovesse essere confermata la volontà di far
transitare tutto e tutti nei Carabinieri, sancendo la
militarizzazione coatta delle funzioni di polizia ambientale e
agroalimentare e del personale, non rimarrà altro che lasciare la
parola agli avvocati“,
avvertivano le sigle nel gennaio 2016. Ed è stato proprio il ricorso
di un ex vice sovrintendente del corpo ad aprire la strada al
pronunciamento del Tar, secondo cui la riforma è contraria alla
“libertà di autodeterminazione”
dei lavoratori e soprattutto “nulla nella legge delega consentiva
al governo di ritenersi espressamente autorizzato a militarizzare il
personale del disciolto corpo forestale dello Stato” né “la
militarizzazione si poneva come scelta obbligata”. L’ordinanza
potrebbe essere solo la prima di una serie, visto che sono oltre
2mila i contenziosi aperti davanti ai tribunali amministrativi in
seguito a ricorsi di ex membri del corpo.
Altri
quattro decreti già bocciati dalla Consulta. E la trasparenza sui
patrimoni dei dirigenti è in bilico –
Il decreto attuativo inviato all’esame della Consulta è, peraltro,
solo l’ultimo in ordine di tempo su cui sono emersi dubbi di
legittimità. Nel novembre 2016 la Corte ha dichiarato
incostituzionali le norme attuative su dirigenti
pubblici,
partecipate,
servizi pubblici locali e pubblico
impiego,
in pratica il cuore della riforma Madia, perché approvate senza la
necessaria “intesa” delle Regioni. Risultato: il governo ha
dovuto riscriverli, ammorbidendoli
in molte parti per ottenere il via libera dei governatori. La
riforma della dirigenza, per la gioia dei mandarini di Stato, è
invece definitivamente saltata
visto che la delega era in scadenza (peraltro il decreto era già
stato demolito
dal Consiglio di Stato che aveva rilevato l’assenza di nuovi
sistemi di valutazione). Pochi mesi fa, poi, l’Anac
ha dovuto sospendere la delibera sulla pubblicazione dei loro dati
patrimoniali, prevista dal decreto Madia sul Freedom
of information act
all’italiana. Una
mossa obbligata dopo che il Tar del Lazio, a cui i dirigenti hanno
fatto ricorso lamentando la violazione della loro privacy, ha emanato
un’ordinanza cautelare che congela l’operazione trasparenza. A
ottobre si pronuncerà sul merito, e a quel punto anche questo
tassello della riforma rischia di saltare.
Nessun commento:
Posta un commento