La scelta coraggiosa del giovane medico: «Potevo lavorare in Svizzera, ma resto nel mio paese in montagna»
di Daniela Corneo
A 31 anni,
Michelangelo Fabbri ha scelto ciò che per molti suoi coetanei suona come una
rinuncia: restare. Restare nel suo paese d’origine, tra le montagne
dell’Appennino bolognese, dove è nato e cresciuto, per fare il medico di
famiglia. Una scelta che ha il sapore dell’impegno civile, in tempi in cui le
aree interne faticano a trovare professionisti disposti a lavorarvi.
«Avrei potuto
andare in Svizzera, mi avevano fatto una proposta interessante. Ma ho deciso di
restare qui, dove posso davvero essere utile. Conosco le persone, le famiglie,
le loro storie», racconta Fabbri, che ogni giorno assiste una popolazione
prevalentemente anziana distribuita su tre Comuni: Castiglione dei Pepoli, San
Benedetto Val di Sambro e Vernio.
La sua è una
medicina "vecchio stampo", come ama definirla lui: «Mi chiamano anche
nei fine settimana, per un consiglio, un controllo, un’urgenza. Li conosco
tutti, e molti mi invitano alle loro feste di compleanno o di paese. Non è solo
una professione, è un legame».
Il giovane
medico è il volto di una sanità di prossimità che resiste. Fa visite
domiciliari, accoglie nei suoi ambulatori chi ha bisogno, si ferma a parlare
con gli anziani nei bar o nelle piazze. «Essere qui significa anche presidiare
il territorio. Non voglio che i miei pazienti debbano fare ore di macchina per
un controllo».
Vita da medico in Appennino: «Con il
4x4 faccio 200 km al giorno. Lavoro 12 ore, ma ne vale la pena»
di Daniela Corneo
«Quando è uscito
il bando per Gaggio Montano non voleva andarci nessuno. Io, invece, ho sentito
che era il momento di cambiare, ma continuando a fare qualcosa di utile»,
spiega Navarrini, mentre carica sul suo fuoristrada la borsa medica e si
prepara a un’altra giornata fatta di visite, chilometri e storie umane.
Ogni giorno
percorre circa 200 chilometri su strade spesso impervie, in mezzo alla nebbia o
alla neve. Ha quattro ambulatori dislocati sul territorio, ma spesso è lui a
doversi spostare per raggiungere chi non può nemmeno telefonare: «Alcuni
pazienti vivono isolati, senza internet o cellulare. Vado io da loro, bussando
alla porta. È questo il mio lavoro».
Le sue giornate
superano facilmente le 12 ore, ma Navarrini non si lamenta: «L’umanità che si
riceve in cambio è impagabile. In città questo rapporto non esiste più. Qui,
invece, entri nella vita delle persone. Non sei un numero, sei il loro
dottore».
La sua presenza è diventata un punto di riferimento per la comunità, in un’epoca in cui i medici di famiglia sono sempre meno e le aree montane rischiano l’abbandono. «Restare significa dare un senso alla mia professione, anche dopo tanti anni. Finché ce la farò, continuerò a farlo».


1 commento:
Ammirevole, chapeau!!
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