venerdì 31 gennaio 2014

Per non dimenticare: on line le voci dei sopravvissuti all’Olocausto




foto tratta dal sito dello US
Holocaust Memorial Museum
Dal Polo Archivistico dell’Emilia Romagna e su richiesta di un lettore:

Con grande attenzione alle pratiche di conservazione digitale più avanzate, lo US Holocaust Memorial Museum ha pubblicato su web centinaia delle oltre 12.000 interviste audio e video alle vittime delle deportazioni naziste, raccolte in 20 anni di storia


Lo United States Holocaust Memorial Museum ha aperto al pubblico nel 1993 con un obiettivo ben preciso: raccogliere e tramandare le testimonianze delle persone sopravvissute alla tragedia della Shoah, partendo dal presupposto che la maggior parte di loro è ormai scomparsa, o comunque non è destinata a vivere ancora a lungo. Da allora a oggi, ha collezionato più di 12.000 interviste audio e video, molte delle quali disponibili anche on line, e con esse quasi 100.000 fotografie, nonché oltre 65 milioni di documenti originali o copiati. Tra questi, diari, manifesti, giornali, tesserini personali, oggetti, film e documentari, provenienti da istituzioni pubbliche o private, così come da collezionisti.
Come si apprende sul blog The Signal della Library of Congress – che nel marzo 2013 aveva dedicato un corposo approfondimento alle sue attività – le stesse interviste accumulate nel tempo provengono solo per il 25-30% da iniziative direttamente promosse dal museo. Il restante materiale è frutto di donazioni personali o da parte di circa una settantina di organizzazioni. Alcune – si legge nell’articolo – erano già in digitale, altre sono state successivamente convertite su supporti informatici da vecchi nastri audio o video, mentre tutte quelle che sono attualmente in via di realizzazione nascono direttamente in digitale. Quello che più conta però, è che il museo ha intenzione di digitalizzare l’intero patrimonio di testimonianze a disposizione, contando tra le altre cose sul supporto della National Digital Stewardship Alliance, alla quale aderisce da tempo, riconoscendo l’importanza fondamentale della conservazione digitale per dare sostanza alla propria vocazione originaria.
Normale e interessante quindi, che l’approfondimento di The Signal sia una specie di storia nella storia. Non mancano ovviamente i dettagli sui materiali custoditi e sulla tragedia alla loro origine, ma molta attenzione viene dedicata anche ai dettagli operativi e alle iniziative messe in atto per fare in modo che si possa continuare a tenere memoria di questa tragedia anche nell'era di Internet. “Il museo attua le migliore pratiche in materia di conservazione digitale delle testimonianze orali e degli altri documenti informatici – si legge a riguardo nell’articolo – ed è costantemente alla ricerca di nuovi sistemi per la gestione e lo storage di questo tipo di contenuti”. A illustrare questi aspetti con dovizia di particolari è direttamente Michael Levy, direttore del dipartimento del museo che si occupa delle collezioni digitali. “Ogni singolo step relativo alla gestione dei file è cruciale – spiega a riguardo – compresi i flussi di lavoro, l’attribuzione di metadati descrittivi, contestuali, tecnici e amministrativi, la definizione di regole precise per l’etichettatura dei file e i percorsi di migrazione, e ancora i meccanismi di controllo automatico da parte dei nostri sistemi informatici sull’integrità di ogni singolo bit. Se non è possibile validare un file – prosegue Levy – come si può essere certi che si tratti esattamente di quello che si presume dovrebbe essere?”.
Considerazioni e principi che valgono sia per quanto direttamente prodotto dal museo, sia per i tanti materiali ricevuti in dono nei formati più diversi, tra i quali ad esempio, per rimanere a quelli informatici, CD, memorie drive e dischi RAID. Ovvio e inevitabile che tanta varietà si riversi anche sulla qualità dei file, specie per quanto riguarda il modo in cui sono nominati e i metadati che li accompagnano, sempre che ce ne siano. E l’unico modo per far fronte a tutto ciò rimane quello di applicare principi molto rigidi di classificazione e archiviazione. “Un’intervista può essere registrata su più nastri digitalizzati – si legge con un esempio nell’articolo – ma sarà sempre e comunque descritta e gestita come se fosse una storia unica. Conseguentemente, questi nastri o magari altri supporti dovranno essere catalogati di modo che facciano riferimento ad una unità di senso globale che li accomuna tutti”.
Rimanendo in tema di varietà, nell’approfondimento si fa cenno anche al nuovo sistema di ricerca on line dei contenuti, creato per fare in modo che tutte le risorse digitali custodite dal museo siano reperibili da un unico punto di accesso. I vari materiali, dalle interviste orali alle modellizzazioni in 3D degli oggetti, dalle foto ai film, continuano a risiedere su database separati, ma mentre prima per ogni singola categoria bisognava consultare specifiche sezioni del sito, adesso tutto è disponibile dalla stessa interfaccia, grazie a un sistema di ricerca multidimensionale che ha semplificato di molto la vita dei navigatori. Sempre in quest’ottica di semplificazione e aspirazione alla massima usabilità possibile, vanno interpretate anche la scelta di indicizzare con parole chiave le trascrizioni delle interviste, e diverse registrazioni audio e video.
Quanto ai loro contenuti, accedendo al sito è possibile ascoltare una vera e propria storia polifonica. Sopravvissuti, parenti e amici delle vittime, veterani, pubblici ministeri attivi negli anni del dopoguerra, medici, infermiere e altro personale con funzioni di soccorso e assistenza: dai loro racconti sprigiona la carica di brutalità del nazismo e la tragedia che causò al mondo. Tragedia di cui è possibile apprendere anche direttamente dalla voce dei carnefici, perché la ricca collezione comprende anche testimonianze di complici dei persecutori, collaboratori dichiarati, e addirittura alcuni soldati direttamente coinvolti nelle operazioni di repressione e sterminio.
Immancabile infine, in un approfondimento dedicato alla storia orale, un cenno alle peculiarità di questo tipo di fonti. “Sicuramente il racconto in prima persona comporta imprecisioni o peggio ancora inconsistenze – dichiara a riguardo uno degli storici più influenti del museo – ma è impossibile negare l’importanza vitale di queste testimonianze. Si tratta di fonti che rivelano particolari irreperibili nei documenti storici ufficiali, destinati a scomparire nelle nebbie del tempo se non venissero raccolti dalla voce di chi ha vissuto direttamente quegli eventi”. Poco importa quindi - anzi ben venga - che fatta eccezione per un corpus di interviste condotte con alcuni ex deportati subito dopo la fine del conflitto, per lo più nel museo si custodiscano testimonianze raccolte a distanza di anni dalla Shoah. Alcuni a quell’epoca erano bambini, e una volta adulti hanno dovuto limitarsi alle proprie sfuggevoli e magari confuse memorie d’infanzia. Altri hanno sicuramente rimosso o comunque razionalizzato a posteriori il trauma per poter sopravvivere. Ma c’è stato anche chi aveva conservato un ricordo vivido e cristallino ed è riuscito a lasciarne traccia, così come persone che dopo decenni di silenzio sono riuscite  a sbloccarsi proprio grazie a questa fondamentale opera di documentazione. “Quello che conta davvero  - afferma un archivista del museo – è che ogni singola voci racconta una parte dell’Olocausto. Una parte che non avremmo mai compreso se quel racconto fosse andato perso”. E che ora, anche grazie alla conservazione digitale, potrà essere tramandata nel futuro. Anche le prossime generazioni potranno in questo modo apprendere, comprendere e serbare memoria.

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