Da
Dubbio
Mentre
tutto il mondo
segue con preoccupazione crescente l’evoluzione dell’epidemia da
coronavirus, il virus della peste suina africana o ASFV continua a
diffondersi in Europa. Certo l’agente patogeno non costituisce un
pericolo diretto per l’uomo, ma si tratta di un virus endemico in
alcune regioni dell’Africa subsahariana che ormai avanza senza
ostacoli anche in Europa. A pagarne le conseguenze sono soprattutto
gli allevatori di suini, che in alcuni paesi hanno dovuto abbattere
migliaia di capi. Il problema ricade anche sui consumatori, che
devono fare i conti con il rincaro dei prodotti e le limitazioni
correlate alle misure restrittive adottate per contrastare il
virus.
L’Efsa
ha pubblicato un rapporto sulla situazione relativa
all’ultimo anno in Europa. Prima di entrare nei dettagli, è
opportuno ricordare che in Italia l’infezione è presente solo in
Sardegna (dal 1978). Secondo quanto riporta il ministero
della Salute, le misure – talvolta drastiche – intraprese
nell’isola stanno aiutando a contenere l’infezione.
La
peste suina africana
è veicolata dal virus Asfv e i segni sono quelli tipici delle
infezioni emorragiche simili a quelli della peste suina
classica (per distinguere l’una dall’altra occorre una diagnosi
di laboratorio). Gli animali manifestano febbre, perdita di appetito,
debolezza, aborti spontanei ed emorragie. I ceppi di virus più
aggressivi sono generalmente letali (il decesso avviene entro 10
giorni dall’insorgenza dei primi sintomi), mentre gli animali
infettati da agenti patogeni meno virulenti possono non
mostrare segni della malattia.
Per
quanto riguarda il contagio,
l’Efsa ricorda che avviene per contatto con animali infetti,
compreso quello tra suini che pascolano all’aperto e cinghiali
selvatici. Oppure per ingestione di carne o derivati di animali
infetti (scarti di cucina, brodo a base di rifiuti alimentari e carne
o frattaglie di cinghiale selvatico. L’infezione può anche
trasmettersi per contatto con qualsiasi oggetto contaminato, come
abbigliamento, veicoli e attrezzature oppure attraverso i morsi di
zecche infette.
In
realtà scrive Efsa
“la circolazione di
animali infetti, i prodotti a base di carne di maiale contaminata e
lo smaltimento illegale di carcasse sono le modalità più rilevanti
di diffusione della malattia”.
Data l’elevata capacità di diffusione, e l’assenza di vaccini e
di terapie efficaci, le misure di contrasto della peste suina
africana sono drastiche, e prevedono l’abbattimento dei capi e
l’isolamento degli allevamenti colpiti.
A
partire dal gennaio 2014,
periodo in cui sono stati segnalati i primi casi in cinghiali
selvatici in Lituania, la malattia si è diffusa anche in Europa, da
est verso ovest. Nello stesso anno il virus è arrivato in Polonia,
Lettonia, Estonia e poi via via altri paesi dell’Europa dell’Est
e del Belgio.
In
base a quanto pervenuto
all’Agenzia nel periodo compreso tra il novembre 2018 e ottobre
2019, la peste suina africana è presente in nove paesi con realtà
estremamente diverse da un paese all’altro. I problemi riguardano
soprattutto le fattorie a conduzione familiare, dove è più
difficile isolare la malattia e adottare provvedimenti efficaci.
Il
rapporto Efsa
cita il caso del Belgio dove si è provato a limitare l’area di
diffusione con recinzioni estese per decine di chilometri, e quello
della Romania, paese con diverse criticità proprio per la presenza
di molti allevamenti a conduzione familiare.
Il
virus della peste suina africana si è diffuso in nove paesi europei
ed è presente in Sardegna dalla fine degli anni ’70
In
questi giorni
sono giunte anche notizie tutt’altro che positive dall’Oriente,
in particolare dall’Indonesia. Il governo indonesiano ha
infatti segnalato la presenza di animali infetti nell’isola di
Sumatra, dove sarebbero già morti circa 30 mila capi. La notizia è
preoccupante anche perché, in base al rapporto
in continuo aggiornamento della FAO, sono ormai 11 i Paesi asiatici
che devono fare i conti con il virus della peste suina africana.
Anche
in questo caso,
la Cina gioca un ruolo di primo piano: da anni cerca di debellare il
virus, che ha già causato l’abbattimento di 1,19 milioni di
suini.Le autorità però incontrano molte difficoltà a far
rispettare la legge, che prevede l’eliminazione dei capi infetti e
di quelli allevati nel raggio di 3 km dal focolaio. Una situazione
non molto diversa si registra in Corea del Sud, che ne ha abbattuti
450 mila, soprattutto ai confini con la Corea del Nord, usando i
droni per evitare sconfinamenti dei cinghiali ammalati. La Mongolia
ha perso 3 mila capi, il 10% dell’intera popolazione suina del
paese, e il Vietnam 5,9 milioni. Ingenti i danni economici, in un
continente nel quale la carne di maiale è presente quasi ovunque.
Secondo le stime, quest’anno negli allevamenti si registrerà una
riduzione variabile dal 13% delle Filippine, al 21% del Vietnam, a
più del 55% della Cina. In questo paese i prezzi sono già saliti
del 4,5%, mentre crescono le importazioni dagli Stati Uniti.
L’Australia,
dove i suini selvatici sono molti, sta adottando misure drastiche
come l’isolamento alle frontiere della carne importata. In sei
mesi, le autorità hanno sequestrato diverse tonnellate carne in
arrivo e l’Asfv è stato rinvenuto in un prodotto su due. Qualora
il virus dovesse sbarcare davvero, le conseguenze sarebbero
probabilmente assai gravi.
Infine,
la ricerca:
nello scorso mese di novembre Science
ha pubblicato uno
studio dettagliato sulla struttura del virus, che si spera
possa accelerare la messa a punto di vaccini e terapie.
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