Consulto nella sede del PD di Sasso Marconi al capezzale del ‘malato lavoro’ fortemente sofferente per la crisi in corso e che a livello locale ha nella Kemet, in regresso occupazionale da anni, l’ultima frontiera da presidiare con attenzione per evitare la rottura del fronte nella valle del Reno a difesa del suo patrimonio industriale.
Al consulto hanno partecipato, fra gli altri, perché direttamente coinvolti nella trattativa Kemet, Stefano Mazzetti sindaco di Sasso Marconi, Francesco Cecere, della FIOM-CGIL Bologna e Marino Mazzini segretario generale FIM- CISL.
Più che una cura, i partecipanti hanno riconfermato lo stato di sofferenza del malato e hanno indicato i fattori che rendono poco efficienti le cure: il processo in atto di delocalizzazione pare irreversibile.
“I costi di produzione in Macedonia sono tali da consentire all’impresa un utile dieci volte superiore di quello che ottengono operando in Italia,” ha detto Cecere riferendosi al fatto che l’attuale direzione Kemet è intenzionata a trasferire alcune lavorazioni di Monghidoro e di Sasso Marconi nell’area dei Balcani. “Così avviene che si decentrano le produzioni italiane, ideate a Sasso Marconi, vendendole in Europa con un grande utile mentre a Sasso Marconi si apre la ‘cassa integrazione’ per decine di operai con la prospettiva di licenziamenti. E’ un assordo inaccettabile ma che continuamente ci troviamo a dover constatare”.
Mazzini gli ha fatto eco ricordando che non siamo solo di fronte a una crisi, ma a una vera trasformazione del mondo del lavoro, di cui occorre prendere coscienza per trovare i rimedi e la strada da imboccare. “A questi si aggiunge la crisi dello Stato e la fuga degli stranieri che non investono più da noi. L’immobilismo di oggi lo pagheranno le generazioni future. I giovani sono scoraggiati e smarriti” ha detto. “ A Bologna si registrano fenomeni sconosciuti dal dopoguerra. Ci sono ben 70.000 disoccupati, quasi tutti giovani e donne”.
Il sindaco Mazzetti ha riferito della difficoltà a trattare con chi ha il centro di potere altrove, slegato dal contesto sociale in cui opera l’azienda e che si stupisce persino a sentire che esiste la cassa integrazione. “Gli statunitensi si sono meravigliati nel vedere che al tavolo di crisi sedevano anche gli enti pubblici: Per noi una crisi aziendale è una crisi sociale che investe l’intero territorio e per questo l’ente pubblico ha fatto tutto il possibile perché Kemet rimanesse”. Il sindaco ha poi auspicato il superamento del ‘patto di stabilità’ che impedisce ora agli enti pubblici di spendere anche se i soldi li hanno.
All’incontro ha partecipato anche Gianni Righi presidente CNA di Sasso Marconi il quale dopo aver sottolineato che le piccole e medie imprese non delocalizzano la produzione perché non ne hanno la possibilità, che innovano, guardano al futuro sapendo che il posto dove potranno lavorare è qui e che sono quindi il vero futuro produttivo nazionale, ha detto “ Si sta facendo tutto il possibile per demotivare gli operatori e raffreddare gli entusiasmi quando ci sono. Dobbiamo rivedere gli equilibri che regolano il lavoro, superare l’ingessatura per mancanza di flessibilità. Molte aziende assumerebbero se la rigidità dei contratti non li scoraggiasse. Non abbiamo infrastrutture adeguate, ne’ procedure snelle”.
Intanto alla Kemet si attende con impazienza l’incontro del ‘tavolo di crisi’ fissato in Regione per il prossimo 7 novembre, cui parteciperà anche il Direttore generale del gruppo industriale.
Si sono tenute le assemblee per turno di lavoro e si dice che è uscita chiara l’indicazione di trattare e di evitare lo scontro frontale con la proprietà. L’azienda ha posto come pregiudiziale la chiusura dello stabilimento di Monghidoro e il trasferimento delle lavorazioni, prima a Sasso Marconi poi in Macedonia. Il sindacato non cede dalla pretesa di vedere conservato l’attuale organico aziendale.
“Stiamo preparando una risposta che possa affiancare o sostituire in modo efficace la pretesa della Kemet”, ha detto Devis Coriambi (nella foto) della RSU dello stabilimento di Sasso Marconi. “Come hanno prospettato loro la riorganizzazione, ci aspetta troppa cassa integrazione”.
Perché troppa cassa integrazione ?
“Il trasferimento momentaneo delle lavorazioni di Monghidoro a Sasso Marconi e quindi l’esportazioni delle macchine in Macedonia si ipotizza di farlo a scaglioni in tre anni. Ciò comporta che chi si trasferisce a Sasso Marconi dopo pochi mesi potrebbe andare in cassa integrazione. Noi vogliamo invece lavorare. L’azienda dovrà trasferire la macchine quando il numero degli addetti è diminuito o per il normale turn over o per i pensionamenti. Oppure sostituire le lavorazioni che trasferisce con altre di maggior pregio”.
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