Di
Piergiovanni Alleva
consigliere
regionale di l'Altra Emilia - Romagna
I
243 licenziamenti alla Saeco di proprietà della Philips sono
l'ennesima mazzata su un territorio devastato da anni di crisi
economica e che rischia la desertificazione industriale.
Per
provare a risolvere la questione dobbiamo capire innanzitutto i
motivi veri alla base degli esuberi: se cioè si tratta di una crisi
di domanda o di un tentativo speculativo.
Se
è una crisi di domanda non capisco perché non si ricorra alla cassa
integrazione, nel secondo caso invece si è di fronte al solito
problema di tutte le delocalizzazioni. Oramai infatti il disegno è
chiaro: le multinazionali vengono qui, acquistano, spesso a prezzo di
saldo, i gioielli industriali creati in decenni con l'ingegno e il
duro lavoro, fanno i comodi loro finché vogliono e poi, appena si
palesa un'opportunità speculativa migliore, fanno armi e bagagli
lasciando sul territorio macerie e disperazione sociale che toccherà
agli enti locali provare a gestire.
Questi
enti locali però si trovano le mani legate visto che la legislazione
estremamente liberista non consente di porre molti argini a queste
spregiudicate speculazioni.
L'unica
scappatoia quindi, per il caso Saeco e per altri simili, è provare
ad offrire alla proprietà qualcosa, una riduzione di costi, a fronte
dell'impegno a rimanere sul territorio per un certo periodo. Ad
esempio si potrebbe proporre uno sconto contributivo. Si tratta con
tutta evidenza di un ricatto per taglieggiare risorse pubbliche, ma
la legislazione non offre molte altre soluzioni.
Da
notare che il jobs act non offre alcuna risposta a questi scenari
speculativi, anzi peggiora ancora di più le cose per i lavoratori
visto che impedisce la reintegra anche qualora il licenziamento
dovesse essere giudicato illegittimo dal giudice (per gli assunti
dopo marzo 2015).
A
mio parere dunque bisogna arrivare ad un accordo territoriale che non
si limiti a far revocare adesso i licenziamenti in tutto o in parte
ma chieda degli impegni occupazionali per tempi lunghi. Dobbiamo
trovare una clausola anti - delocalizzazione da mettere al principio
quando cioè avviene il passaggio di proprietà tra le due società,
anche se con una legislazione attuale tutta improntata al liberismo e
finalizzata a lasciare mano libera all'impresa a scapito della
responsabilità sociale non appare un compito facile. E' quindi un
problema che va affrontato in sede europea dove queste politiche
liberiste sono decise.
4 commenti:
Quelli che pontificano dove erano e cosa facevano per evitare le possibili ed arcinote manovre speculative delle multinazionali ????????
Ora pensiamo al problema contingente per NON fare scappare un'altra azienda che occupa molte famiglie della nostra montagna, poi MA SUBITO su le maniche e sedere fuori dalla poltrona ( non dalla sedia ) per legiferare come si conviene ad un paese che NON è in svendita.
Seguirò il blog per conoscere le mosse del parlamentare o esponente politico che dir si voglia.
Buon lavoro ed in bocca al lupo
alan delon
meglio tacere davanti a certi geni
Ma qualche anno fa, tutti anche i sindacati, erano stra felici che le multinazionali venissero ad "investire" in Italia. Poi abbiamo aperto le porte europee ai paesi dell'Est che hanno tratto tutti i vantaggi dal far parte dell'Unione Europea senza obbligare nessuno ad adeguare tassazione, stipendi, sicurezza sul lavoro etc. a livello europeo. Le imprese fanno il loro mestiere, che fino ad oggi è stato solo quello di aumentare i profitti sfruttando le condizioni più favorevoli ovunque si presentassero. La politica italiana ha continuato a favorire le imprese, le banche, il profitto senza mai chiedere un impegno di vero e duraturo sviluppo e di protezione e incentivo delle produzioni locali-nazionali anzi svendendo diritti acquisiti e qualità. Perchè si permette all'industria del lusso di dichiarare Made in Italy quello che viene prodotto in Cina, Romania, Turchia etc.?
Perchè chi fa le leggi a Roma prende direttive (leggi: se le fan scrivere) direttamente dalle lobbies, chiaro come il sole.
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