domenica 28 agosto 2016

Nei bilanci delle Regioni un «rosso» da 33 miliardi.

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Un totale di 33 miliardi di disavanzo. È il risultato da brividi mostrato dai bilanci delle Regioni dopo essere stati esaminati al microscopio dalle sezioni territoriali della Corte dei conti: un risultato che mette una seria ipoteca sulle possibilità future per molte Regioni di mettere in campo le politiche di sostegno al welfare e di spinta alle imprese che sarebbero essenziali per rivitalizzare l’anemica crescita italiana. Ma andiamo con ordine, perché il tema è ad alto tasso tecnico ma ha ricadute molto concrete sul mix di tasse e servizi che anima il rapporto fra i cittadini e la loro regione.
I numeri, prima di tutto: sono quelli scritti nei rendiconti 2015 esaminati dalle sezioni regionali della Corte dei conti; in qualche caso, visti i ritardi nell’approvazione dei consuntivi, si è dovuto far riferimento agli anni precedenti, e il risultato complessivo dell’anno scorso potrà quindi rivelarsi addirittura peggiore. Ma che cosa ha fatto esplodere in tutta la loro evidenza i disavanzi regionali, cioè i saldi negativi fra le entrate e le uscite dell’anno?

LA TOP TEN DEL DEBITO

Tolti gli innocui “disavanzi tecnici”, prodotti dal debito autorizzato ma non contratto come accade per esempio in Lombardia ed Emilia Romagna, alla base del fenomeno ci sono due fattori. Il decreto Monti del 2012 ha aperto alla Corte dei conti le porte dei bilanci regionali, che prima vivevano in splendida autonomia (le Regioni non avevano nemmeno l’obbligo di farsi controllare da revisori dei conti professionisti) e oggi sono sottoposti al «giudizio di parificazione», cioè all’esame dei magistrati contabili sulla legittimità e sulla correttezza delle scelte. Nei conti del 2015, poi, l’analisi della Corte dei conti si è dovuta esercitare sull’applicazione a regime della riforma della contabilità, con le nuove regole che guidano la formazione dei bilanci di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni. La riforma poggia su centinaia di pagine di principi contabili, lettura ostica anche per gli addetti ai lavori, ma ha un obiettivo semplice: pulire i bilanci locali dalle entrate che non si trasformano in incassi reali, oltre che dalle spese prive di pezze d’appoggio valide, per fotografare la situazione reale dei conti. Il punto chiave è naturalmente offerto dalla cancellazione delle entrate tenute in bilancio solo per abbellire il risultato finale, senza che però ci sia più la possibilità concreta di incassarle: la loro pulizia ha abbattuto i risultati di amministrazione, e la Corte dei conti ha fatto il resto correggendo in molti casi al ribasso i numeri proposti dalle Regioni.

Tasse e spesa, settant’anni di autonomia senza rete

Per avere un riassunto efficace degli effetti di questa novità basta fare un salto in Sicilia. Il risultato a fine 2014, prima della cura, era positivo per 6,4 miliardi, dopo il «riaccertamento dei residui», cioè il nome tecnico della pulizia dei conti dalle voci da spostare o cancellare, si è trasformato in un rosso da 1,9 miliardi che a fine 2015, calcolate anche le somme vincolate o accantonate per effetto delle nuuove regole, è sfociato in un disavanzo da poco meno di 7 miliardi. Gli stessi magistrati contabili siciliani, presentando i dati, hanno riconosciuto alla Regione il merito di una «ripulitura epocale» del bilancio, spiegando però che «il problema ora è nel futuro», perché l’obbligo di coprire a rate il disavanzo «potrebbe mettere a rischio il concreto esercizio delle funzioni fondamentali e la destinazione delle risorse verso i necessari investimenti».
Già, perché disavanzi di questa portata porterebbero dritte al dissesto le Regioni “colpite”, per cui la riforma offre fino a 30 anni di tempo per ripianarlo. Lo stesso orizzonte è quello concesso alle Regioni per restituire al ministero dell’Economia le anticipazioni da oltre 20 miliardi concesse negli anni scorsi per pagare i debiti con i fornitori: in pratica, è come se le Regioni avessero firmato due maxi-mutui, però non per finanziare nuovi investimenti ma per ripianare le magagne del passato.
Entrambi i colpi, quello inferto dalla riforma e quello prodotto dalle anticipazioni, si sono manifestati in Piemonte: spulciati i numeri torinesi, la Corte dei conti ha fissato a 7,26 miliardi il deficit piemontese, frutto anche di un bubbone nei conti che nella ricostruzione dei magistrati risale all’epoca Bresso (la presidente di centrosinistra che ha guidato la Regione dal 2005 al 2010) e cresce con il leghista Roberto Cota, non senza la complicità dei tavoli tecnici governativi dell’epoca. Tornata a sinistra con Chiamparino, la Regione evita il dissesto solo grazie alla possibilità di spalmare in 30 anni extra-deficit e anticipazioni, ma ovviamente si lega le mani con le rate di ammortamento. «Per anni la Regione ha speso molto più di quanto avrebbe potuto in base alle sue entrate - ha sintetizzato con efficacia il procuratore regionale della Corte dei conti, Giancarlo Astegiano - e ora deve destinare elevate risorse al pagamento dei debiti pregressi anziché al sostegno di chi versa in stato di bisogno, al potenziamento delle infrastrutture e dei servizi sociali, allo sviluppo dell’economia locale».
Proprio le anticipazioni sblocca-debiti sono alla base del super-disavanzo del Lazio, che la Regione aveva indicato in 2,9 miliardi e la Corte ha invece “corretto” portandolo a quota 10,9 miliardi. Attenzione, però, perché i numeri in questo caso riguardano il 2014, e a fine anno si conoscerà con la parificazione del consuntivo 2015 anche l’impatto della riforma.

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