Un
totale di 33 miliardi di disavanzo. È il risultato da brividi
mostrato dai bilanci delle Regioni dopo essere stati esaminati al
microscopio dalle sezioni territoriali della Corte dei conti: un
risultato che mette una seria ipoteca sulle possibilità future per
molte Regioni di mettere in campo le politiche di sostegno al welfare
e di spinta alle imprese che sarebbero essenziali per rivitalizzare
l’anemica crescita italiana. Ma andiamo con ordine, perché il tema
è ad alto tasso tecnico ma ha ricadute molto concrete sul mix di
tasse e servizi che anima il rapporto fra i cittadini e la loro
regione.
I
numeri, prima di tutto: sono quelli scritti nei rendiconti 2015
esaminati dalle sezioni regionali della Corte dei conti; in qualche
caso, visti i ritardi nell’approvazione dei consuntivi, si è
dovuto far riferimento agli anni precedenti, e il risultato
complessivo dell’anno scorso potrà quindi rivelarsi addirittura
peggiore. Ma che cosa ha fatto esplodere in tutta la loro evidenza i
disavanzi regionali, cioè i saldi negativi fra le entrate e le
uscite dell’anno?
LA TOP TEN DEL DEBITO
Tolti gli innocui “disavanzi tecnici”, prodotti dal debito autorizzato ma non contratto come accade per esempio in Lombardia ed Emilia Romagna, alla base del fenomeno ci sono due fattori. Il decreto Monti del 2012 ha aperto alla Corte dei conti le porte dei bilanci regionali, che prima vivevano in splendida autonomia (le Regioni non avevano nemmeno l’obbligo di farsi controllare da revisori dei conti professionisti) e oggi sono sottoposti al «giudizio di parificazione», cioè all’esame dei magistrati contabili sulla legittimità e sulla correttezza delle scelte. Nei conti del 2015, poi, l’analisi della Corte dei conti si è dovuta esercitare sull’applicazione a regime della riforma della contabilità, con le nuove regole che guidano la formazione dei bilanci di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni. La riforma poggia su centinaia di pagine di principi contabili, lettura ostica anche per gli addetti ai lavori, ma ha un obiettivo semplice: pulire i bilanci locali dalle entrate che non si trasformano in incassi reali, oltre che dalle spese prive di pezze d’appoggio valide, per fotografare la situazione reale dei conti. Il punto chiave è naturalmente offerto dalla cancellazione delle entrate tenute in bilancio solo per abbellire il risultato finale, senza che però ci sia più la possibilità concreta di incassarle: la loro pulizia ha abbattuto i risultati di amministrazione, e la Corte dei conti ha fatto il resto correggendo in molti casi al ribasso i numeri proposti dalle Regioni.
Tasse e spesa, settant’anni di autonomia senza rete
Per
avere un riassunto efficace degli effetti di questa novità basta
fare un salto in Sicilia. Il risultato a fine 2014, prima della cura,
era positivo per 6,4 miliardi, dopo il «riaccertamento dei residui»,
cioè il nome tecnico della pulizia dei conti dalle voci da spostare
o cancellare, si è trasformato in un rosso da 1,9 miliardi che a
fine 2015, calcolate anche le somme vincolate o accantonate per
effetto delle nuuove regole, è sfociato in un disavanzo da poco meno
di 7 miliardi. Gli stessi magistrati contabili siciliani, presentando
i dati, hanno riconosciuto alla Regione il merito di una «ripulitura
epocale» del bilancio, spiegando però che «il problema ora è nel
futuro», perché l’obbligo di coprire a rate il disavanzo
«potrebbe mettere a rischio il concreto esercizio delle funzioni
fondamentali e la destinazione delle risorse verso i necessari
investimenti».
Già,
perché disavanzi di questa portata porterebbero dritte al dissesto
le Regioni “colpite”, per cui la riforma offre fino a 30 anni di
tempo per ripianarlo. Lo stesso orizzonte è quello concesso alle
Regioni per restituire al ministero dell’Economia le anticipazioni
da oltre 20 miliardi concesse negli anni scorsi per pagare i debiti
con i fornitori: in pratica, è come se le Regioni avessero firmato
due maxi-mutui, però non per finanziare nuovi investimenti ma per
ripianare le magagne del passato.
Entrambi
i colpi, quello inferto dalla riforma e quello prodotto dalle
anticipazioni, si sono manifestati in Piemonte: spulciati i numeri
torinesi, la Corte dei conti ha fissato a 7,26 miliardi il deficit
piemontese, frutto anche di un bubbone nei conti che nella
ricostruzione dei magistrati risale all’epoca Bresso (la presidente
di centrosinistra che ha guidato la Regione dal 2005 al 2010) e
cresce con il leghista Roberto Cota, non senza la complicità dei
tavoli tecnici governativi dell’epoca. Tornata a sinistra con
Chiamparino, la Regione evita il dissesto solo grazie alla
possibilità di spalmare in 30 anni extra-deficit e anticipazioni, ma
ovviamente si lega le mani con le rate di ammortamento. «Per anni la
Regione ha speso molto più di quanto avrebbe potuto in base alle sue
entrate - ha sintetizzato con efficacia il procuratore regionale
della Corte dei conti, Giancarlo Astegiano - e ora deve destinare
elevate risorse al pagamento dei debiti pregressi anziché al
sostegno di chi versa in stato di bisogno, al potenziamento delle
infrastrutture e dei servizi sociali, allo sviluppo dell’economia
locale».
Proprio
le anticipazioni sblocca-debiti sono alla base del super-disavanzo
del Lazio, che la Regione aveva indicato in 2,9 miliardi e la Corte
ha invece “corretto” portandolo a quota 10,9 miliardi.
Attenzione, però, perché i numeri in questo caso riguardano il
2014, e a fine anno si conoscerà con la parificazione del consuntivo
2015 anche l’impatto della riforma.
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