Segnalato
Marianna Madia e Matteo Renzi |
Il parere sul decreto che dovrebbe sfoltire la giungla delle 8mila aziende pubbliche: la presidenza del Consiglio ha facoltà di graziare quelle di sua scelta, cosa che comporta "la creazione di un modello societario libero dall’obbligo di perseguire le finalità istituzionali dell’amministrazione partecipante". In più sono state salvate senza spiegazione Anas, Arexpo, Coni, Expo, Eur, Gse, Invimit, Invitalia, Poligrafico e Sogin. E comunque nessuno vigilerà sull'attuazione del piano
“L’esclusione
dall’applicazione del Testo unico non
può essere totale,
come autorizza la norma in esame”. Quanto all’attribuzione a
Palazzo Chigi
del potere
di tener fuori per decreto
alcune società dal perimetro della riforma, “non è chiaro
quale sia la natura
e il fondamento
di tale potere”. Infine, “manca un sistema di controllo e
monitoraggio in grado di assicurare una efficace
attuazione
delle norme”. Così il Consiglio
di Stato,
nel parere in cui dà il via libera al decreto
legislativo Madia
sulle società partecipate,
di fatto mette nero su bianco che anche questo testo attuativo
della riforma
della pubblica amministrazione è
pieno di buchi. Troppo larghe le maglie, troppo arbitraria
la scelta delle aziende che usciranno del tutto indenni
da quella che era stata presentata come una mannaia
sulla “giungla” (copyright Carlo
Cottarelli)
delle 8mila società controllate
dallo Stato o dagli enti locali. Ciliegina sulla torta, la cura
dimagrante rischia di rimanere sulla carta visto che “la
formulazione proposta non
individua una struttura competente
preposta specificamente allo svolgimento di questa (l’attuazione,
ndr)
importante attività né indica poteri vincolati che si dimostrino
appropriati”.
I
rilievi più pesanti riguardano appunto i criteri
di individuazione delle società “salvate”. Criteri su cui non
c’è alcuna trasparenza.
Fermo restando che rimangono fuori tutte le società quotate,
le scappatoie
previste dallo schema di decreto sono tre, ricorda il parere dei
giudici amministrativi: sono fatte salve “specifiche
disposizioni contenute in leggi o regolamenti”, viene stabilito che
con decreto della Presidenza del Consiglio possa essere
deliberata “l’esclusione
totale o parziale dell’applicazione delle disposizioni a singole
società” e alcune aziende elencate in allegato al provvedimento
vengono “miracolate” fin d’ora. Si tratta di Anas,
Arexpo,
Coni,
Expo,
Eur
spa,
Gse,
Invimit,
Invitalia,
Istituto
poligrafico e zecca dello Stato
e Sogin.
Per
queste ultime è necessario perlomeno “chiarire quali siano le
ragioni che hanno condotto all’individuazione”, chiede Palazzo
Spada. Ancora più perplessità suscita il potere
discrezionale
del premier di decidere con un proprio decreto “motivato con
riferimento alla misura e qualità della partecipazione pubblica,
agli interessi
pubblici
a essa connessi e al tipo di attività svolta, anche al fine di
agevolarne
la quotazione“,
chi altro salvare dall’obbligo di mettere a punto un piano
di rientro
se in rosso, chiudere
i battenti
se quattro degli ultimi cinque esercizi si sono chiusi in perdita,
ridurre
le poltrone
dei consigli di amministrazione e i compensi dei vertici, eliminare
i trattamenti speciali di fine mandato per i manager e introdurre
il divieto
di cumulo
fra stipendio pubblico e compenso della partecipata. “E’
necessario che venga rispettato il principio di
legalità sostanziale“,
si legge nel parere. “Il che impone che
le precise condizioni
per l’esercizio del potere siano poste nella norma primaria e cioè
nel presente decreto delegato”.
In
ogni caso “andrebbe chiarito che l’esclusione dall’applicazione
del Testo unico non può essere totale,
come autorizza la norma in esame”. Questo perché “la completa
esclusione potrebbe comportare la creazione di un modello societario
che, libero
dall’obbligo di perseguire le finalità istituzionali
dell’amministrazione
partecipante,
non era consentito,
alla luce delle prescrizioni contenute nella legge finanziaria del
2008,
neanche prima della riforma in esame“.
Insomma: il decreto, così come è uscito dal Consiglio dei ministri,
anziché introdurre criteri più rigidi e “moralizzazione” come
rivendicato dal premier e dal ministro Marianna
Madia aprirebbe
la strada a una totale
libertà di movimento
per gli amministratori di aziende scelte discrezionalmente dal
governo. L’esercizio del potere da parte di Palazzo Chigi
dovrebbe perlomeno “rendere sempre applicabile il regime
ordinario civilistico
e non certo altre regole
speciali o derogatorie,
che, comunque, non potrebbero essere introdotte con una fonte non
legislativa”, chiosano i giudici. E la scelta dovrebbe basarsi su
criteri come “la virtuosità
finanziaria,
lo svolgimento di attività d’impresa per il perseguimento di
rilevanti interessi pubblici, l’aver conseguito affidamenti in base
a
procedure competitive“.Altre “criticità” vengono poi evidenziate nel paragrafo dedicato alle cosiddette società in house, quelle a controllo pubblico che producono beni e servizi per la stessa pubblica amministrazione: mancano “criteri rigorosi per assicurare maggiori livelli di concorrenza“. La decisione di non esternalizzare quelle attività, cioè non affidarle ad aziende private, andrebbe invece presa solo quando è possibile dimostrare “che la scelta organizzativa interna si risolve in un maggiore vantaggio per i cittadini”. E tenendo presente che “il ricorso al mercato e non all’in house può, infatti, costituire esso stesso, permettendo l’accesso di nuovi operatori, un utile strumento di liberalizzazione economica“.
1 commento:
Evviva evviva, questa e quella resta viva... Queste sarebbero le riforme renziane? Porcherie, porcherie a palate!
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