Anche l’abbandono di rifiuti da parte di
comuni cittadini costituisce, al pari di quello posto in essere da titolari di
enti e imprese, un reato. Le nuove norme hanno infatti riformulato le punizioni
previste, sostituendo alla mera sanzione amministrativa pecuniaria una ammenda
dal più robusto contenuto economico. Ma scattano anche garanzie processuali e
sanzioni ridotte
Da Italia Oggi
Da ottobre 2023 anche l'abbandono di rifiuti effettuato da
parte di comuni cittadini costituisce, al pari di quello posto in essere da
titolari di enti ed imprese, un reato. La legge 9 ottobre 2023 n. 137 (di
conversione del dl 105/2023) ha infatti riformulato le punizioni previste
dall'articolo 255 del dlgs 152/2006 a carico di “chiunque” si disfi in tal modo
di rifiuti, sostituendo alla mera sanzione amministrativa pecuniaria una
ammenda dal più robusto contenuto economico. Ma la trasformazione da illecito
amministrativo ad illecito penale (nello specifico, contravvenzionale) della
fattispecie non appare essere garanzia di maggior potere preventivo e
repressivo dello Stato nei confronti di condotte offensive per l'ecosistema.
Con il passaggio dal regime amministrativo a quello penale, scattano infatti
anche per la nuova categoria di presunti responsabili dell'abbandono sia le
garanzie processuali sull'onere della prova sia la possibilità di avvalersi del
meccanismo agevolato di estinzione dell'illecito previsto dallo stesso Codice
ambientale.
La
nuova configurazione dell'illecito. Come ricordato da ultimo dalla Corte di
Cassazione, con sentenza 33423/2023, la disciplina in materia di abbandono o
deposito irregolare di rifiuti risulta dalla combinazione tra l'articolo 255,
comma 1 e l'articolo 256, comma 2 del dlgs 152/2006. Il primo articolo,
infatti, prevede sanzioni a carico di qualunque soggetto che, non agendo sotto
il titolo di una specifica attività, abbandona o deposita rifiuti ovvero li
immette in acque superficiali o sotterranee in violazione delle disposizioni di
riferimento dello stesso dlgs 152/2006; il secondo prevede invece sanzioni più
grevi quando la stessa condotta è posta in essere da “titolari di imprese ed ai
responsabili di enti”. Prima della neo legge 137/2023 (pubblicata sulla
Gazzetta ufficiale del 9 ottobre 2023, n. 236) la distinzione fondamentale tra
le due fattispecie era la diversa natura delle disposizioni sanzionatorie:
sanzione pecuniaria amministrativa da 300 a 3 mila euro (aumentata fino al
doppio per i rifiuti pericolosi) ex art. 255; arresto fino a 2 anni più ammenda
fino a 26 mila euro in caso di rifiuti pericolosi ex art. 256.
Con
la riforma operata dalla legge 137/2023 la disposizione sanzionatoria ex art.
255 viene trasformata da amministrativa a penale, con la previsione per
l'autore dell'illecito di una ammenda da 1000 a 10 mila euro in caso di rifiuti
non pericolosi, aumentata fino al doppio in caso di pericolosi. Tecnicamente,
al reato “proprio” di titolari di enti ed imprese se ne affianca, dunque, uno
“comune” punito meno severamente. A precisare il confine applicativo tra le due
figure è intervenuta proprio la scorsa estate, con una pronuncia che appare
ancor oggi applicabile, la giurisprudenza di legittimità. In particolare, con
sentenza 31 luglio 2023 n. 33423 la Corte di Cassazione ha prospettato la
possibilità di punire come illecito "comune" ex articolo 255 del dlgs
152/2006 (ieri amministrativo, oggi penale) anche l'abbandono di rifiuti
commesso, sì, da titolari di imprese o enti ma avente ad oggetto residui
estranei a qualunque attività che, anche episodicamente, potrebbero svolgere
tali organizzazioni.
Le
conseguenze dal punto di vista probatorio. L'ingresso dell'abbandono “comune”
di rifiuti tra i reati comporta rilevanti conseguenze, in primis, dal punto di
vista dell'accertamento della responsabilità dell'autore da parte delle
Autorità competenti. L'onere probatorio, infatti, si configura nel processo
penale in modo diverso dall'ambito procedurale amministrativo e civile. In
primo luogo, nel procedimento amministrativo sanzionatorio, l'atto
dell'Autorità pubblica che irroga la sanzione può infatti appoggiarsi (ex
articolo 3 della legge 689/1981, come letta dalla corrente giurisprudenza, tra
cui la sentenza del Consiglio di Stato 22 luglio 2022, n. 6473) su una
presunzione di colpa posta a carico del presunto trasgressore, cui spetta
l'onere di superarla per non soccombervi. In secondo luogo, in sede
giurisdizionale, sia a livello amministrativo che civile è sostanzialmente
ritenuto sufficiente raggiungere una “ragionevole probabilità” della
responsabilità del presunto colpevole sulla base di elementi probatori che lo
inducano a ritenere tale in modo “più ragionevole che non” (sul tema si vedano,
tra le altre, l'ordinanza della Corte di Cassazione 27720/2018 e la sentenza
del Consiglio di Stato 3570/2022). E questo a differenza del processo penale
ove, in ultima istanza, occorre comunque (in ossequio all'articolo 533 del
Codice di procedura penale) che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se
l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni
ragionevole dubbio”.
I
riflessi sull'applicazione delle sanzioni. La mutazione dell'abbandono di
rifiuti posto in essere da “chiunque” in illecito penale apre nuovi panorami
anche dal punto di vista del procedimento applicativo delle relative sanzioni.
In quanto reato, il neo illecito ex riformulato articolo 255 del dlgs 152/2006
è infatti ora candidabile alla procedura di estinzione (agevolata) delle
contravvenzioni ex articolo 318-bis e seguenti, Parte Sesta-bis, dello stesso
Codice ambientale (e questo laddove, prima della suddetta mutazione, lo stesso
illecito era invece ammesso alla procedura di pagamento in misura ridotta ex
articolo 16, legge 689/1981). Il meccanismo ex Codice ambientale (che può
comportare la riduzione del 75% dell'importo da pagare) è applicabile
esclusivamente alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste
dallo stesso dlgs 152/2006 “che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e
attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche
protette”. La procedura è attivabile su iniziativa della polizia giudiziaria o
dell'organo vigilanza che ne esercita le funzioni, ma a loro discrezione. Da ultimo,
con sentenza 28 luglio 2023 n. 32962 la Corte di Cassazione ha infatti ribadito
che “la procedura (…) non è obbligatoria, e che l'omessa indicazione
all'indagato, da parte dell'organo di vigilanza o della polizia giudiziaria (…)
delle prescrizioni la cui ottemperanza è necessaria per l'estinzione delle
contravvenzioni, non è causa di improcedibilità dell'azione penale”.
L'iter
delineato dal Codice ambientale prevede che tali Autorità impartiscano al
presunto contravventore l'ordine di ricondurre entro un determinato termine la
situazione di fatto a quella di diritto, eventualmente imponendo anche
specifiche misure per far cessare attività o condotte pericolose. Se si
conforma alla prescrizione adempiendovi, l'indagato (che gode nelle more di una
sospensione del procedimento penale) è ammesso a pagare, in sede
amministrativa, una somma pari ad un quarto del massimo dell'ammenda stabilita
per la contravvenzione con conseguente estinzione del reato. Se, invece,
adempie alla prescrizione in modo difforme (per tempistica o modi), lo stesso
può comunque essere dal Giudice ammesso all'oblazione ex Codice penale, con un
aumento della somma da versare alla metà del massimo dell'ammenda comminata.
Se, infine, non adempie alla prescrizione, il procedimento penale a suo carico
riprende il proprio corso. Tale procedimento penale, riavviato all'esito
dell'infelice conclusione di quello alternativo ex Codice ambientale oppure mai
sospeso per non essere stato l'indagato ammesso al meccanismo ex articolo
318-bis e seguenti, vede la sua normale evoluzione secondo il rito del decreto
penale di condanna. Tale rito comporta l'emissione da parte del giudice per le
indagini preliminari (su richiesta della pubblica accusa) di un provvedimento
che, senza contraddittorio, applica la pena pecuniaria. A tale decreto di
condanna l'imputato può adeguarsi pagando l'importo, che viene ridotto di un
quinto se saldato entro 15 giorni dalla notifica, oppure opporsi, chiedendo la
prosecuzione del processo penale secondo altri riti pur semplificati, ma con le
suddette garanzie codicistiche.