di Marcello Veneziani
“Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione,
una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è
ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e
importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli
alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti”. Queste parole
non provengono da un nostalgico sudista ma da un imprenditore del nord
proiettato nell’avvenire: le pronunciò Adriano Olivetti a Pozzuoli
nel 1959. Poco dopo, quella millenaria civiltà sarebbe sparita. Ma in quel
tempo i contadini erano ancora la maggioranza della popolazione al sud. Chi è
nato negli anni cinquanta ancora ricorda, come il sogno di un bambino, quel
mondo popolato di contadini, di traini, di braccianti che vanno in piazza per
essere ingaggiati; ricorda le loro case, i loro corpi piegati dalla fatica, le
loro mani segnate dal duro lavoro. E poi il loro modo ruvido di essere, di
parlare, di tacere, di camminare. Che fine ha fatto la civiltà contadina, ci
sono ancora tracce, qualcosa riaffiora col declino della modernità industriale
che ne aveva preso il posto? No, siamo passati dalla preistoria contadina alla
poststoria tecno-globale; di quel mondo ora è scomparsa pure l’impronta mentale
e culturale.
“Un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato
alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; quella terra senza conforto e
dolcezza, dove il contadino vive nella sua miseria e nella sua lontananza, la
sua immobile civiltà su un suolo arido, alla presenza della morte”. Così
scriveva un altro piemontese costretto a sud, Carlo Levi, in Cristo si è
fermato a Eboli. Un ritratto tutt’altro che idilliaco di quel mondo, di cui
veniva evocata la miseria. Forse i suoi occhi di confinato rendevano più triste
quel mondo; ma la nostalgia a volte edulcora ricordi di una vita aspra, intrisa
di amarezza e rassegnazione.
Eppure, evocando agli inizi del novecento la fine
della civiltà contadina, Charles Péguy la definì “il più grande avvenimento
della storia dopo la nascita di Cristo”. Una rivoluzione copernicana, dove la
terra non era il pianeta ma il suolo, i suoi frutti, la sua coltivazione e i
suoi abitanti col loro modo di vivere. Quel vivere comunitario in sintonia con
la natura, le stagioni, i suoi ritmi, le sue benedizioni e le sue sciagure, che
a volte sono assai simili, differiscono solo per quantità o per tempismo… La
pioggia e il sole, benedetti e maledetti…
Nel pieno della modernità industriale ci fu chi
confessò di preferire quel mondo antico che precedeva la mutazione
antropologica degli anni sessanta e settanta. “È questo illimitato mondo
contadino prenazionale e preindustriale sopravvissuto fino a solo pochi anni
fa, che io rimpiango” -scriveva PierPaolo Pasolini a Italo Calvino – “Gli
uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano
coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano quella che
Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni primari,
necessari alla loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni
superflui rendono superflua la vita…”. Resta però da spiegare perché la
rimpianta civiltà contadina sia stata così velocemente e così facilmente
cancellata e i suoi stessi abitatori si siano così docilmente e avidamente
consegnati alla società dei consumi.
L’età del pane è una bellissima espressione che si
riferisce all’infanzia ma anche a quel mondo antico, ancora fermo all’età della
fame. Il pane indica il bisogno elementare di una società povera e semplice,
com’era quella fiorita intorno alla civiltà contadina. Chi è nato negli anni
cinquanta al sud ricorda i bambini per strada, a volte scalzi, che stringevano
in mano un tozzo di pane, con la mollica inumidita dalla loro saliva. Quel
nutrimento basilare, quella dotazione delle madri ai loro piccoli raccontava
una condizione di miseria appena sedata dai morsi più urgenti.
Parlando della civiltà contadina, ci siamo riferiti
al sud ma abbiamo citato solo autori settentrionali. Bisogna leggere Corrado
Alvaro, Elio Vittorini, Rocco Scotellaro, Tommaso Fiore e altri, per farsi
raccontare da uomini del sud cos’era la civiltà contadina. Il calabrese Alvaro,
per esempio, così commenta la fine della civiltà contadina: ”Non avrei mai
pensato che ci sarebbe toccato vivere al tramonto di un mondo. Proprio ti
chiedo scusa. Certo, é ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo,
dell’epoca, del mondo come va. Ma ognuno è responsabile del suo tempo”. Ma per
Vittorini quella cultura contadina Sopravviveva sotto traccia. Scotellaro
narrava lo strano impasto di schiavitù e libertà nella vita dei campi: “Ho
perduto la schiavitù contadina,/ non mi farò più un bicchiere contento,/ ho
perduto la mia libertà”. Per Scotellaro la cultura ufficiale “sconosce la
storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e
religioso” nel suo formarsi e modificarsi. Egli paragona i contadini all’uva
puttanella che ha acini maturi ma piccoli che devono lottare con l’altra uva
dagli acini più grandi per sopravvivere. Dove è finito quel “popolo di
formiche” e di “cafoni all’inferno”, per dirla con Fiore? È come svanito, si è
rifugiato nei ricordi. “Dopo l’imbrunire ci sediamo a cena, scodella tra le
gambe, intorno al rosso focolare. Appena, poco prima, qualche lieve campano di
vacche…gli operai si godono in silenzio il fuoco. Subito m’addormento come un
bambino, per svegliarmi il domani, fra lo stesso suono di campani, come una
carezza”. Il sogno della civiltà contadina.
Possiamo vivere senza notai calciatori, imbonitori (influencer nella neolingua), spacciatori, VIP, burocrati, armocromisti, etc. ma non senza contadini che ci forniscono il cibo, il carburante esistenziale.
RispondiEliminaIn questo mondo al contrario, i contadini sono negletti, il resto, per dirla alla Baumann, più fa inutilità o danni, più è posizionato in alto nella piramide sociale.
Pagina tanto amara quanto bella.
Grazie molte, signor Fabbriani.
C.Z.
La merda woke governa nella testa dei consiglieri regionale e nei suoi vertici, non arriverà nulla di buono continuando a fare governare l'agricoltura a questi globalisti filo europa, la più grande IATTURAche i popoli europei abbiano mai dovuto sopportare è stata imposta dal PD e affini sindacalisti venduti.
RispondiEliminaMolto bello questo florilegio di grandi scrittori sul tema, grazie per aver postato l'articolo di Marcello Veneziani. Dove e' finita quella civilta'? Prima decimata dall'avanzata delle macchine, ora forse i contadini stanno nel sud del pianeta, da dove costa meno far arrivare la loro produzione. Nostalgia di quell'umanita', tanta davvero; ricordiamoci pero' che i nostri avi non erano contenti di vivere cosi'. La morale? Ah, saperlo, tanto piu' che tutto il pianeta sta andando in v***a.
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