domenica 7 gennaio 2024

L’amarcord del ‘Cinno’ Gian Paolo Frabboni

 Offriamo con piacere un racconto-testimonianza di Gian Paolo Frabboni ( nella foto), oggi quasi novantenne, per lungo tempo abitante di Marzabotto che ricorda la sua infanzia vissuta in un’epoca che sembra così lontana nel tempo perché ancora intrisa di semplici usi e di una povertà materiale ma non affettiva, dove i sentimenti sono protagonisti.

  

C’era una volta un bambino che, nato in città, divenne “esule” a soli 45 giorni di vita.  Era l’anno 1934, viveva con mamma e il cuginetto Primo (orfano di genitori) nella sua casetta, ma dovette essere trasferito in un piccolo borgo dell’Appennino fino all’aprile del 1945. Era tempo, quello, in cui governava una sola persona e le leggi venivano interpretate secondo opportunità. Al padre, che nutriva idee lontane da quelle dell’epoca a cui si era adeguata “ob torto collo” la maggioranza della popolazione, il regime imperante  stava troppo stretto.  Comunque fu assegnato ai ‘Reali Carabinieri’.  

Ma un dì giunsero nella sua casa gli sbirri dell’epoca a cercarlo per ignoti motivi. Il genitore non era in casa ed essi  avvertirono la moglie che sarebbero tornati e, se non l’avessero trovato, avrebbero  prelevato il “Cinno” così il padre sarebbe stato indotto a comparire.

Ma il nonno materno li precedette e il bambino non fu più con la sua mamma.

Era in luogo sicuro e ben protetto anche dal piccolo e povero gruppo di gente che abitava quel borgo da generazioni, fra boschi e antiche case.

Solo quella del nonno era costruita in pietra e intonacata.  La famiglia era composta dai nonni due zii e  tre zie di cui una aveva 12 anni. 

Qui ebbe inizio la vita del bambino che cresceva forte e robusto viziato dalla sua famiglia e da tutti gli abitanti che lavoravano la terra, mantenevano in buona salute il bosco, coltivavano l’orto, allevavano gli animali per il loro uso famigliare ma ponevano attenzione ai viandanti di passaggio a tutela del “piccolo ospite” perché tutti erano di fede antiregime. Viveva nella solidarietà e la protezione di tutti gli abitanti di San Pietro di Ozzano.

 

Ma qui finisce la favola vera e inizia il ‘ racconto ’   perché quel bambino ero io: Gian Paolo Frabboni nato a Bologna il 17 maggio 1934.

Il borgo “San Pietro” si raggiungeva da una stradina che parte dalla Via Emilia e saliva, ripida, verso la collina, fra campi ancora oggi ben coltivati, vigne di preziosa Albana e zone boscate.

Allora, come tutte, le strade erano in terra battuta e il fondo stradale era ben assestato per il passaggio dei carri trainati dalle mucche.

Sul poggio esistevano le abitazioni con barbiere, osteria, sarta e, in alto, la Chiesa.

Il nonno era il cantoniere-capo (ma senza personale) e suo compito era mantenere le strade in buone condizioni e percorribili.

Aveva la possibilità di avere manodopera locale utilizzando abitanti del luogo che lavoravano bene, anche perché  erano i principali fruitori di quella strada.

A fine mese si recavano in Comune per ricevere la ”mercede” secondo le ore di lavoro che il nonno segnava diligentemente su un quaderno.

Fin da piccolo mi veniva ripetutamente detto di non avvicinare estranei, né pronunciare il mio nome anche se richiesto. Dovevo restare muto. E su questo obbedivo.

Ma i ragazzini più grandi dovevano sempre tenermi d’occhio e la cosa non mi piaceva.

Crescendo mi rendevo conto che erano attenzioni riservate a me che, provenendo dalla città, non conoscevo i pericoli della campagna dei boschi e….. degli eventuali incontri.

 Ero molto curioso, sempre pronto a compiere qualche monelleria perché nessuno mi sgridava ed erano tutti pronti a perdonarmi (forse per via della mia situazione).

Anche gli zii mi perdonavano sempre, ma la zietta Dorina no, forse era gelosa perché non era più lei la piccola di casa. La nonna mi insegnava le preghiere e mi dava consigli.

Al mattino facevo colazione con latte e panna o con cioccolata e, se il pane era fresco di forno, mangiavo quello, altrimenti con biscotti fatti dalla nonna o con la ciambella che era sempre pronta ed era quella che donava a tutti coloro che entravano in casa, con  un bicchiere di Albana . Anch’io io desideravo tanto ma nessuno me lo porgeva, così una volta la rimproverai: “perché ai forestieri sì e a me no?” e Ia risposta di nonna fu: “Arriverà anche il tuo tempo”. 

A volte seguivo il nonno nel suo lavoro di cantoniere, ma ero più interessato a giocare e a confondermi con gli altri bambini sempre sotto sorveglianza.

 Spesso mi inoltravo nei sentieri del bosco vicino a casa e al rientro ricevevo la solita sgridata e, se fatta dalla zietta, ci scappava anche una sculacciata.  Mi sono anche chiesto: “Perché tutti potevano e io no” ?

Qui  gli adulti e ragazzi parlavano in dialetto. Io solo in italiano.  La cosa non mi piaceva e coi ragazzi  anch’io parlavo dialetto, con tutti, anche con gli adulti e molti sorridevano. Altra cosa che mi disturbava era quella che io dovevo sempre camminare con le scarpe o i sandalini mentre i miei compagni andavano a piedi nudi anche quando pioveva. Poi si asciugavano con la paglia nelle stalle e io li imitavo.  Un giorno mi presentai in casa scalzo  parlando dialetto.  Furente fu la reazione della zietta che mi rispedì fuori a lavarmi nella fontana e a sera, a tavola, raccontò che mi ero fatto vedere scalzo e dialettando; sorrisi e grande risata degli zii. Ma la nonna tacque.

A cena era l’occasione per essere tutti in famiglia: nonno Carlo, nonna Celsa, zio Guido, e Fernando, zia  Laura e zia Dorina che io chiamavo “Dorina”  (ma lei non voleva, dovevo chiamarla  “zia”).  Aveva 12 anni più di me. Tutti bevevano vino e io no.

 Ma qualche volta lo zio Guido mi permetteva di mettere un dito nel suo bicchiere e io succhiavo gioioso il sapore del vino. 

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