Offriamo con piacere un racconto-testimonianza di Gian Paolo Frabboni ( nella foto), oggi quasi novantenne, per lungo tempo abitante di Marzabotto che ricorda la sua infanzia vissuta in un’epoca che sembra così lontana nel tempo perché ancora intrisa di semplici usi e di una povertà materiale ma non affettiva, dove i sentimenti sono protagonisti.
C’era una volta un bambino che, nato in città, divenne “esule” a soli 45 giorni di vita. Era l’anno 1934, viveva con mamma e il cuginetto Primo (orfano di genitori) nella sua casetta, ma dovette essere trasferito in un piccolo borgo dell’Appennino fino all’aprile del 1945. Era tempo, quello, in cui governava una sola persona e le leggi venivano interpretate secondo opportunità. Al padre, che nutriva idee lontane da quelle dell’epoca a cui si era adeguata “ob torto collo” la maggioranza della popolazione, il regime imperante stava troppo stretto. Comunque fu assegnato ai ‘Reali Carabinieri’.
Ma un dì giunsero nella sua casa gli sbirri
dell’epoca a cercarlo per ignoti motivi. Il genitore non era in casa ed essi avvertirono la moglie che sarebbero tornati e,
se non l’avessero trovato, avrebbero prelevato
il “Cinno” così il padre sarebbe stato indotto a comparire.
Ma il nonno materno li precedette e il bambino non
fu più con la sua mamma.
Era in luogo sicuro e ben protetto anche dal piccolo
e povero gruppo di gente che abitava quel borgo da generazioni, fra boschi e
antiche case.
Solo quella del nonno era costruita in pietra e
intonacata. La famiglia era composta dai
nonni due zii e tre zie di cui una aveva
12 anni.
Qui ebbe inizio la vita del bambino che cresceva
forte e robusto viziato dalla sua famiglia e da tutti gli abitanti che
lavoravano la terra, mantenevano in buona salute il bosco, coltivavano l’orto,
allevavano gli animali per il loro uso famigliare ma ponevano attenzione ai
viandanti di passaggio a tutela del “piccolo ospite” perché tutti erano di fede
antiregime. Viveva nella solidarietà e la protezione di tutti gli abitanti di San
Pietro di Ozzano.
Ma qui finisce la favola vera e inizia il ‘
racconto ’ perché quel bambino ero io: Gian Paolo Frabboni nato a Bologna il 17 maggio 1934.
Il borgo “San Pietro” si raggiungeva da una stradina
che parte dalla Via Emilia e saliva, ripida, verso la collina, fra campi ancora
oggi ben coltivati, vigne di preziosa Albana e zone boscate.
Allora, come tutte, le strade erano in terra battuta
e il fondo stradale era ben assestato per il passaggio dei carri trainati dalle
mucche.
Sul poggio esistevano le abitazioni con barbiere,
osteria, sarta e, in alto, la Chiesa.
Il nonno era il cantoniere-capo (ma senza personale)
e suo compito era mantenere le strade in buone condizioni e percorribili.
Aveva la possibilità di avere manodopera locale
utilizzando abitanti del luogo che lavoravano bene, anche perché erano i principali fruitori di quella strada.
A fine mese si recavano in Comune per ricevere la ”mercede”
secondo le ore di lavoro che il nonno segnava diligentemente su un quaderno.
Fin da piccolo mi veniva ripetutamente detto di non
avvicinare estranei, né pronunciare il mio nome anche se richiesto. Dovevo
restare muto. E su questo obbedivo.
Ma i ragazzini più grandi dovevano sempre tenermi d’occhio
e la cosa non mi piaceva.
Crescendo mi rendevo conto che erano attenzioni
riservate a me che, provenendo dalla città, non conoscevo i pericoli della
campagna dei boschi e….. degli eventuali incontri.
Ero molto
curioso, sempre pronto a compiere qualche monelleria perché nessuno mi sgridava
ed erano tutti pronti a perdonarmi (forse per via della mia situazione).
Anche gli zii mi perdonavano sempre, ma la zietta
Dorina no, forse era gelosa perché non era più lei la piccola di casa. La nonna
mi insegnava le preghiere e mi dava consigli.
Al mattino facevo colazione con latte e panna o con
cioccolata e, se il pane era fresco di forno, mangiavo quello, altrimenti con
biscotti fatti dalla nonna o con la ciambella che era sempre pronta ed era
quella che donava a tutti coloro che entravano in casa, con un bicchiere di Albana . Anch’io io desideravo
tanto ma nessuno me lo porgeva, così una volta la rimproverai: “perché ai
forestieri sì e a me no?” e Ia risposta di nonna fu: “Arriverà anche il tuo
tempo”.
A volte seguivo il nonno nel suo lavoro di
cantoniere, ma ero più interessato a giocare e a confondermi con gli altri bambini
sempre sotto sorveglianza.
Spesso mi
inoltravo nei sentieri del bosco vicino a casa e al rientro ricevevo la solita
sgridata e, se fatta dalla zietta, ci scappava anche una sculacciata. Mi sono anche chiesto: “Perché tutti potevano
e io no” ?
Qui gli adulti
e ragazzi parlavano in dialetto. Io solo in italiano. La cosa non mi piaceva e coi ragazzi anch’io parlavo dialetto, con tutti, anche con
gli adulti e molti sorridevano. Altra cosa che mi disturbava era quella che io
dovevo sempre camminare con le scarpe o i sandalini mentre i miei compagni
andavano a piedi nudi anche quando pioveva. Poi si asciugavano con la paglia
nelle stalle e io li imitavo. Un giorno
mi presentai in casa scalzo parlando
dialetto. Furente fu la reazione della
zietta che mi rispedì fuori a lavarmi nella fontana e a sera, a tavola,
raccontò che mi ero fatto vedere scalzo e dialettando; sorrisi e grande risata
degli zii. Ma la nonna tacque.
A cena era l’occasione per essere tutti in famiglia:
nonno Carlo, nonna Celsa, zio Guido, e Fernando, zia Laura e zia Dorina che io chiamavo “Dorina” (ma lei non voleva, dovevo chiamarla “zia”). Aveva 12 anni più di me. Tutti bevevano vino e
io no.
Ma qualche volta lo zio Guido mi permetteva di mettere un dito nel suo bicchiere e io succhiavo gioioso il sapore del vino.
Grazie per la bella testimonianza.
RispondiEliminaLaura B.