domenica 23 ottobre 2016

Ungulati in Appennino: una filiera delle carni per sostenere gli agricoltori e rilanciare l’enogastronomia di qualità.



Si è svolto alla Rocchetta Mattei un convegno voluto dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese che ha coinvolto diversi attori per discutere sul problema della eccessiva presenza di animali selvatici in Appennino e della necessità di una filiera maggiormente controllata. Le promesse sono interessanti. Si aspettano ora i fatti:

Ridurre il numero degli ungulati e individuare un fondo per sostenere gli agricoltori che subiscono danni dalla loro presenza. Gli ungulati, animali selvatici che popolano l’Appennino bolognese, possono infatti diventare una risorsa importante: serve però una filiera trasparente delle carni, che rispetti le densità obiettivo regionali e garantisca la qualità della selvaggina contrastando il mercato nero. Sono questi alcuni dei temi emersi dal convegno che si è tenuto alla Rocchetta Mattei, promosso dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese, durante la quale si è discusso partendo da un progetto sperimentale presentato dal biologo e tecnico faunistico Nicola Canetti.
Il progetto parte da due premesse: le aziende agricole professionali, che da tempo denunciano la presenza di animali selvatici come un grave danno per le loro attività, solo calate nel bolognese del 30% in dieci anni, a fronte di una presenza di ungulati nei territori appenninici che negli ultimi tempi può dirsi stabile o apparentemente in calo per caprioli, cervi e daini, mentre è in crescita per i cinghiali (se ne stimavano 4600 nel 2012, 5300 solo due anni dopo).
A fronte però di migliaia di abbattimenti di cinghiali ogni anno, solo una parte esigua di capi finisce conferita nei centri di lavorazione ufficiali.
La proposta è allora quella di lavorare sulla cultura e la formazione dei cacciatori (che oltre tutto sono in costante calo: erano 3469 nel 2002, nel 2012 sono scesi a 2870) incentivandoli a fornire la selvaggina ai macelli controllati per promuovere una carne di qualità che rivaluti le eccellenze dell’enogastronomia locale. L’idea è quella di tracciare la filiera tramite un marchio di qualità e destinare una parte dei proventi ad un fondo a favore degli agricoltori. Un prodotto di qualità, controllato e verificato da una filiera trasparente, può arrivare a valere 25-30 € al chilo, ma garantisce anche i ristoratori che possono spendere di più per un prodotto a chilometro zero sicuramente più sano e appetibile.
Come hanno infatti spiegato Gabriele Squintani e Roberto Barbani dell’AUSL di Bologna, le corrette pratiche di lavorazione della selvaggina, se effettuate in ambienti idonei, riducono la contaminazione delle carni rendendone il consumo sicuro. Sempre l’AUSL - che ha stipulato una convenzione con la Città metropolitana per affidare alla polizia provinciale i controlli sulla tracciabilità degli ungulati - d’accordo con gli ATC BO 2 e BO3 vuole arrivare ad un sistema informatico unico per ATC, polizia metropolitana e centri di lavorazione della selvaggina che permetta un confronto dati più efficace e faciliti la lotta al contrabbando delle carni.


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