Si
è svolto alla Rocchetta Mattei un convegno voluto dall’Unione dei
comuni dell’Appennino bolognese che ha coinvolto diversi attori per
discutere sul problema della eccessiva presenza di animali selvatici
in Appennino e della necessità di una filiera maggiormente
controllata. Le promesse sono interessanti. Si aspettano ora i fatti:
Ridurre
il numero degli ungulati e individuare un fondo per sostenere gli
agricoltori che subiscono danni dalla loro presenza. Gli
ungulati, animali selvatici che popolano l’Appennino
bolognese, possono infatti diventare una risorsa importante: serve
però una filiera trasparente delle carni, che rispetti le
densità obiettivo regionali e garantisca la qualità della
selvaggina contrastando il mercato nero. Sono questi alcuni dei temi
emersi dal convegno che si è tenuto alla Rocchetta Mattei, promosso
dall’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese, durante la quale
si è discusso partendo da un progetto sperimentale presentato dal
biologo e tecnico faunistico Nicola Canetti.
Il
progetto parte da due premesse: le aziende agricole professionali,
che da tempo denunciano la presenza di animali selvatici come un
grave danno per le loro attività, solo calate nel bolognese del 30%
in dieci anni, a fronte di una presenza di ungulati nei territori
appenninici che negli ultimi tempi può dirsi stabile o
apparentemente in calo per caprioli, cervi e daini, mentre è in
crescita per i cinghiali (se ne stimavano 4600 nel 2012, 5300 solo
due anni dopo).
A
fronte però di migliaia di abbattimenti di cinghiali ogni anno, solo
una parte esigua di capi finisce conferita nei centri di lavorazione
ufficiali.
La
proposta è allora quella di lavorare sulla cultura e la formazione
dei cacciatori (che oltre tutto sono in costante calo: erano 3469 nel
2002, nel 2012 sono scesi a 2870) incentivandoli a fornire la
selvaggina ai macelli controllati per promuovere una carne
di qualità che rivaluti le eccellenze dell’enogastronomia locale.
L’idea è quella di tracciare
la filiera tramite un marchio di qualità e destinare una parte dei
proventi ad un fondo a favore degli agricoltori. Un prodotto di
qualità, controllato e verificato da una filiera trasparente, può
arrivare a valere 25-30 € al chilo, ma garantisce anche i
ristoratori che possono spendere di più per un prodotto a chilometro
zero sicuramente più sano e appetibile.
Come
hanno infatti spiegato Gabriele Squintani
e Roberto Barbani
dell’AUSL di Bologna, le corrette pratiche di lavorazione della
selvaggina, se effettuate in ambienti idonei, riducono la
contaminazione delle carni rendendone il consumo sicuro. Sempre
l’AUSL - che ha stipulato una convenzione con la Città
metropolitana per affidare alla polizia provinciale i controlli sulla
tracciabilità degli ungulati - d’accordo con gli ATC BO 2 e BO3
vuole arrivare ad un sistema informatico unico per ATC, polizia
metropolitana e centri di lavorazione della selvaggina che permetta
un confronto dati più efficace e faciliti la lotta al contrabbando
delle carni.
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