Marco ha
segnalato questa lettera aperta al Presidente Renzi di Salvatore Giacchetti, Presidente
aggiunto onorario del Consiglio di Stato
Quando i
precedenti governi misero mano ad un effettivo sistema anticorruzione si resero
conto che la corruzione aveva ormai raggiunto vastità, capillarità e capacità –
anche trasversale – di infiltrazione nelle istituzioni tali che il solo impegno
delle magistrature e delle forze dell’ordine sarebbe potuto risultare non
sufficiente a fronteggiarla, soprattutto in fase di prevenzione. Si pensò
allora ad inquadrare, in qualità di forze ausiliarie, sia la generalità dei
cittadini (il che richiedeva di assicurare ad essi la massima conoscibilità
dell’attività amministrativa e quindi la massima trasparenza di essa) sia – in
particolare – la categoria dei pubblici dipendenti, da utilizzare in qualità di
antenne diffuse su tutto il territorio per raccogliere notizie utili per
eventuali interventi anticorruzione. Insomma una terza gamba per il cammino
della legalità.
L’idea era
buona: ma la sua realizzazione operativa è stata palesemente inadeguata.
La
trasparenza è partita con grande clamore mediatico con l’art. 11 del decreto
legislativo Brunetta n. 150/2009, ripetuto (evidentemente prima non era stato
preso troppo sul serio) e sviluppato dal1’art. 1 del decreto legislativo n.
33/2013, che ha riaffermato l’esistenza di un principio generale di “trasparenza
assoluta….intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti
l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”; ma ha
contemporaneamente precisato, al successivo art. 4, che tale trasparenza è
assicurata “nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato,
di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezioni dei dati personali”:
il che, in pratica, vuol dire che la trasparenza “assoluta” non è tale. Sarebbe
come se il servizio meteo prevedesse l’assoluta bellezza del tempo, nei limiti
consentiti dalle bombe d’acqua e dagli uragani.
Per quanto
riguarda la mobilitazione dei semplici cittadini, con invito ad esercitare le
neonate “forme diffuse di controllo” sull’operato della pubblica
amministrazione, non è stato considerato che esercitare facoltà del genere
richiede tempo, impegno, pazienza ed inevitabili piccole spese. Questo faceva
già in partenza pronosticare una risposta molto tiepida all’invito di
collaborazione in nome di un generico interesse comune; ed il pronostico si è
puntualmente avverato: un apprezzabile controllo diffuso, di fatto, non si è
avuto. La risposta avrebbe potuto essere invece forte se – nell’eventualità di
un apporto collaborativo utile – il collaboratore avesse potuto contare quanto
meno su un riconoscimento morale in termini di visibilità (utile soprattutto ad
incentivare la collaborazione di associazioni, comitati, persone desiderose di
farsi conoscere, ecc.) o su un riconoscimento anche pratico, ad esempio il
conseguimento di un attestato da poter far valere nei pubblici concorsi (utile
soprattutto a canalizzare in senso positivo almeno parte dello scontento
giovanile). Il tutto a costo zero. Ma ciò non è avvenuto.
Per quanto
riguarda la mobilitazione dei pubblici dipendenti – che avrebbe potuto
costituire la parte più utile del contributo da parte di terzi, attesa la
provenienza delle notizie da soggetti che di regola ben conoscono le magagne
del proprio ufficio – è intervenuto l’art.54 bis del decreto legislativo n.
165/2001, introdotto dalla legge anticorruzione n. 190/2012, che rendendosi
conto che un pubblico dipendente può ragionevolmente segnalare illegalità del
proprio Ufficio solo se gli venga poi garantita una adeguata protezione contro
un’altrimenti invitabile vendetta dell’Ufficio stesso, ha previsto
espressamente la “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”,
precisando che “il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria
o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico
condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di
lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura
discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro
per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. Ma la
concreta effettività di tale tutela è prontamente smentita dal seguito
dell’articolo, secondo cui “L’adozione di misure discriminatorie e’
segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di
competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in
essere.” Infatti, il Dipartimento della funzione pubblica non ha alcun
potere diretto sull’Amministrazione autrice della discriminazione; i “provvedimenti
di competenza” che può adottare si riducono al potere di segnalare la
questione nella sua relazione annuale al Parlamento. E quindi, campa cavallo.
Anzi neanche quello: perché la denuncia si trasformerebbe nel frattempo in un
suicidio burocratico dello sprovveduto denunciante che avesse ingenuamente
confidato nella promessa legislativa di tutela, come in concreto è già
risultato da un recentissimo convegno svoltosi il 16 luglio scorso a Palazzo
Montecitorio, sul tema “Whistleblowing e anticorruzione: proteggere chi
denuncia”.
Signor
Presidente, l’idea governativa di partenza era buona: ma tutto il lavoro per
realizzarla ha sinora prodotto al Paese soltanto un triplice danno:
- non si è potuto sfruttare il sicuramente ingente e prezioso bagaglio di notizie che avrebbe potuto essere fornito dai cittadini e soprattutto dai pubblici dipendenti;
- si è rafforzata nei cittadini la convinzione che le leggi, e soprattutto quelle che danno diritti civili e politici ai cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, non siano una cosa seria ma innocue leggi manifesto che lasciano il tempo che trovano, perché in sede tecnica la buona idea viene sempre opportunamente devitalizzata in itinere da burocrazie che non si rassegnano a prendere atto che il loro è un servizio e non un potere;
- e soprattutto non si è potuto sfruttare il potente effetto psicologico anticorruzione che si sarebbe verificato se gli amministratori inclini alla corruzione fossero stati consapevoli dei rischi reali in cui in tal caso avrebbero potuto incorrere già nel loro stesso ambiente.
Signor
Presidente, l’anticorruzione attualmente non può sfruttare tutte le risorse
offerte dall’ordinamento giuridico, dato che una delle sue gambe è nata ed è
rimasta zoppa. Il legislatore ha già assunto l’impegno formale di curarla: si
tratta soltanto di attuare questo impegno, facendone una cosa seria. La cura
potrebbe avvenire in tempi rapidi, a costi irrilevanti per l’erario, e con benefici
rilevanti per la legalità e la moralità pubblica. I cittadini non possono
continuare a vivere di illusioni e di promesse legislative non mantenute.
Confidiamo quindi in Lei.
Sinceri
auguri, Signor Presidente.
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