Un lettore
ha inviato questo articolo di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani e, come
richiesto, lo pubblichiamo.
Con sentenza n. 5695 del 6 febbraio 2015, la prima
sezione penale della Cassazione ha stabilito che la critica a un uomo pubblico,
in particolare quando gestisce denaro della collettività, ha margini molto
ampi, purché il fatto da cui si prende spunto sia vero.
Questo è il
messaggio più interessante che emerge da una pronuncia che pone fine, con
l’annullamento senza rinvio, all’odissea di un procedimento cautelare, relativo
al sequestro di un articolo on-line, durato quasi due anni e che ha impegnato
cinque diversi giudici: un gip, due collegi del tribunale del riesame e due
della Cassazione.
Sul sito di
un giornale a tiratura nazionale venivano pubblicati due articoli fortemente
critici nei confronti dell’allora presidente del consiglio superiore dei beni
culturali. I giornalisti descrivevano l'importante dirigente pubblico con toni
dissacranti, prendendo spunto dal finanziamento di un documentario della casa
di produzione della figlia, dal tentativo di cessione a titolo oneroso di un
brevetto a lui intestato e dalla ristrutturazione di un castello di sua
proprietà grazie a un finanziamento pubblico. L'articolo menzionava la
generosità del presidente con amici e parenti e la sua “voracità”, lo
rappresentava come un «guru dei rapporti pubblico privato», che era «riuscito
ad auto erogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia», oltre
a «piazzare» il suo brevetto. Per descrivere tali comportamenti si richiamava
il film «Totò truffa» e si utilizzavano espressioni più che allusive come «la
conoscenza: un fine o solo un mezzo per fare soldi?».
Nel primo
giudizio del 2013, la Cassazione aveva risolto in senso positivo la questione
relativa alla sequestrabilità dell'informazione via web; nel procedimento
appena concluso, invece, la decisione si basa e si risolve nella definizione
dei confini della liceità della critica nei confronti di chi esercita un ruolo
pubblico. La Corte distingue tra la polemica aspra, pungente e sarcastica,
ammessa se diretta nei confronti dei personaggi pubblici, e l’aggressione gratuita,
illecita in quanto colpisce la sfera morale della persona senza alcun
collegamento con i fatti.
Il punto di
equilibrio appare questo: tanto maggiore è il potere, tanto più necessario è il
controllo dell'opinione pubblica e dunque tanto minori sono i limiti anche in
ordine alle modalità di esposizione di una notizia. Infatti, secondo la
Cassazione, perché la forma sia “civile” non è necessario usare un linguaggio
«grigio e anodino». Vi è spazio per la polemica provocatoria, per la satira
sferzante e per la dissacrazione di chi gestisce la cosa pubblica, purché i
fatti posti alla base della critica siano veri.
Pare davvero
di sentire dalla bocca del giudice italiano quel refrain della Corte europea
dei diritti, secondo cui la libertà di espressione è la regola e la protezione
della reputazione è l’eccezione che richiede un’interpretazione restrittiva.
Infatti, oggi anche secondo la nostra Suprema Corte, l’interesse a una
discussione aperta sulle questioni della polis è tale da consentire il ricorso
ad una dose di esagerazione o di provocazione.
Si tratta,
insomma, di una decisione amica della stampa, che lascia ai giornalisti un
ampio spazio per smascherare il potere e demitizzare i suoi uomini. Ancora una
volta, l’interrogativo è se di tale libertà l’informazione italiana farà buon
uso o se i giudici saranno costretti a tornare a un orientamento meno liberale.
la kraffen e gli altri avranno compreso?
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